Cosa resta dopo una battaglia, se non i cadaveri sul campo? Ammesso che non abbiamo combattuto contro i mulini a vento, perché in questo caso saremo affranti dall’insoddisfazione. Dopo la battaglia è uno spettacolo di Pippo Delbono nel quale l’acredine dello sconfitto si confeziona in un prodotto facile. Spente le luci in sala, si palesano agli occhi dello spettatore i classici componenti del cast del regista ligure: alcuni seduti, su delle sedie che sembra invochino la grazia ai tarli, altri, alle loro spalle in piedi, a formare una composizione di un nostaglico affresco nobiliare. Emerge all’istante dai costumi la predominanza del bianco, del rosso e del nero, gli unici colori sulla scena, che costituiscono un impianto cromatico formale piuttosto standardizzato.
Delbono da un microfono in fondo alla sala inizia a raccontare la genesi dello spettacolo, l’iniziale rapporto col Teatro Bellini e la successiva rottura con questo, fino a sfociare in un’irata richiesta di mare: «Voglio il mare, metti il mare», urla, mentre sul palco è proiettata la clip di una nave che solca le onde. La voce rabbiosa, che rimarca il naufragare di questa nazione, fa sperare il ritorno del Delbono che fu, di quando incitava la corsa di Mr. Puma in Barboni, o quando negli spettacoli la schiuma di saliva, che si raggrumava ai lati delle labbra, rendeva le parole fisiche e quasi solide. Un’ora e cinquanta di spettacolo non sarà sufficiente a realizzare un simile desiderio. Il suo stare dietro l’ultima fila della platea pare connoti una dimensione aliena, poiché se in passato era sinonimo dell’ultimo a entrare in sala - atto devoto di umiltà, pronto a rimare con il suo desiderio di spogliare la scena - adesso segna il passo di un sergente che esamina alle spalle le reclute: vuole rendersi conto della specie di pubblico in poltrona. Persino quando chiederà a una signora tra i presenti, non scelta a caso ma una di quelle signore con la pelliccia, come sta trovando lo spettacolo, si mostrerà capzioso. La signora non può scegliere cosa rispondere, perché sta trovando bello lo spettacolo, e lui ostenta la soddisfazione di chi ha dimostrato una grossa verità: il suo sguardo ammicca all’anomia del gusto, ci comunica come sia scontato un pubblico di quel tipo.
Col dipanarsi dello spettacolo appaiono quadri scenici di grande resa estetica, mentre l’uso di alcune maschere completa l’anima grottesca che guida il fiuto del regista, ma non è certo una vena d’oro che troveremo nel monolite di creature sul palco, perché i temi di contorno non sono nuovi: Artaud, la reclusione, in particolare di Bobò, l’infamia della società, della politica e del sistema culturale contemporaneo, creano un contrasto retorico col violino del recente acquisto Balanescu e con i delicati passi della Maggipinto. Un ethos fin troppo condiviso e condivisibile che trova visibilmente facile consenso aldilà delle esistenze singolari.
La battaglia dovrebbe invece essere condotta contro l’autoreferenzialità. Delbono parla troppo di sé e lo fa attaccato a una bandiera con l’aria del primo uomo che ruba la verginità di un territorio inesplorato, purtroppo ignorando gli indigeni. Anche quando sembra di rivendicare la libertà dell’arte, facendo parodiare a un attore maschio la sindaca del comune di Marano, appare artificioso come la polemica dei giorni successivi, ingenuo pensare che non ci si aspettassero reazioni. Negli ultimi spettacoli si assiste al reiterarsi di temi stirati all’eccesso, come se stesse continuando a affinare lo stesso lavoro, cercando una forma definitiva, rischiando di sfuggire da una maieutica socratica applicata all’arte e scadendo nel manierismo.
Ricordo Delbono mettersi a nudo e allestire un ring con i suoi lavori, dove il corpo senza organi del personaggio era un nomade che sfidava il male più tremendo, il male necessario, un nemico epico ma così nascosto nell’intimo da rendere impossibile riconoscere il vincitore di ogni scontro; mentre adesso le figure ai vertici sono mutate: Delbono, ormai icona della cultura, allestisce un duello tra pari, dove si sfidano sì temi di importanza sociale, ma il male diventa fastidio. Chi minaccia la libertà, in questo caso, sono i beceri, i cialtroni, le macchiette, le foto dei politici, e la lotta diventa un imprecare contro gli uccellacci neri che beccano le semenze.
Bernardo Brogi