Nel 2005 Richard Maxwell giunge per la prima volta in Italia, portando Good Samaritans alla Biennale di Venezia, su invito dell’allora direttore Romeo Castellucci. In un ventaglio di scelte già di per sé controverso, caratterizzato dalla negazione totale del teatro di prosa, lo spettacolo fu male accolto dalla critica nostrana, sbeffeggiato o peggio ignorato. Durante Vie abbiamo incontrato Piersandra Di Matteo, studiosa di performing art, che nel suo libro di prossima uscita Eccezione alla lettera. La scena di Richard Maxwell New York City Players edito da Editoria e Spettacolo ci racconta la storia di un abbaglio all’italiana.
Ad infastidire del suo teatro fu la non etichettabilità, la non adesione al canonico teatro di prosa ma anche la sua distanza dalle forme sceniche più sperimentali. I membri del New York City Players spesso non sono attori professionisti, ma scelti per un qualche particolare tic, un marcato accento o balbuzie. Maxwell nega l’interpretazione strasberghiana dei personaggi, costruendo delle figure dai movimenti minimali, che negano l’a-parte teatrale e abusano di pause rubate dalla realtà, ma che quando dialogano lo fanno secondo un sistema serrato di “botta e risposta” scarno e frontale. Più vicine a Beckett che a Brecht, queste ordinary people sembrano uscite da un romanzo di Carver, da quell’america con dalla A miniscola, fatta di spreco e di nuovi poveri.
La scena spesso viene costruita seguendo quella che Sarah Gorman definisce “l’estetica delle prove” (The Theatre of Richard Maxwell and the New York City Players, Routledge 2011): in uno spazio vuoto e atemporale si staglia qualcosa che sembra non essere ancora pronto per andare in scena, come un abbozzo del dramma. Questa ricercata “negligenza del reale”, unitamente al dilettantismo attoriale, ai personaggi “tagliati con l’accetta” e volutamente opposti al virtuosismo teatrale americano furono completamente travisati dalla critica italiana.
Vision disturbance – presentato in Italia nell’Edizione 2011 di Vie – ci presenta dei New York City Players dai contorni più morbidi, complice il fatto che il testo non è scritto da Maxwell, ma da Christina Masciotti. Lo spettacolo ha un taglio più narrativo, sebbene l’autrice si pieghi totalmente alla cifra registica maxweeliana e al suo portare alle estreme conseguenze il discorso postdrammatico. Nel teatro di Maxwell il sogno americano non è perduto, ma negato alla base. La sua è una New York di blue collar workers che ci parlano frontalmente ma senza cercare il nostro sguardo, equidistanti dal paradigma recitativo dell'Actor studio ma anche dalla mimesi.
Personaggi monchi, caratterizzati da una minimalismo corporeo e dialogico che paradossalmente non toglie nulla all’efficacia emotiva che pochissime prose epicamente costruite riescono a contenere. Una naïveté recitativa talmente spiazzante che coinvolge lo spettatore su più livelli. Quando Mondo, la protagonista di origini greche con problemi all’occhio sinistro, racconta del suo divorzio non fa trasparire emozione eppure il pubblico viene travolto dalla sua sofferenza. Per quanto abbia problemi di vista, che alterano la sua percezione dello spazio, la protagonista sa esattamente cosa accade e ne parla con assoluta lucidità scandendoci le informazioni essenziali col suo accento così mimeticamente ordinary da apparirci strambo nel contesto teatrale, proprio per la sua totale mancanza di affettazione.
Per contrappunto, la musica classica prescritta alla donna dall'oculista che condivide con lei la scena, entra a variegare il ritmo scenico e a chiudere i siparietti dei singoli dialoghi, come una parodica “valvola di sfogo” della tensione dei personaggi. Spesso si sfiora una commedia - sembrano quasi mancare le risate pre-registrate - acuita dall’uso di pause sterili, di tempi morti tipici della cultura televisiva ma da sempre negati nel teatro di prosa.
La scena di Vision Disturbance, al contempo semplice e magistrale, vede in due sedie l’unico mezzo disponibile per ricreare lo spazio e per segnare gli scatti tra una scena e l’altra attraverso la partitura dei loro spostamenti. Come pedine di un invisibile scacchiera, una volta portate dagli attori fuori dal campo scenico ne determinano la disgregazione, con il fondale che cade - come una sorta di deus ex machina alla rovescia - sciogliendo i fili del dramma e scoprendo un'altra platea, quella vera del Teatro Herberia di Rubiera (il pubblico ha assistito allo spettacolo sul palco, in una piccola tribuna montata sul fondo e rivolta verso la "vera" platea).
Ben lontano da un virtuosismo meta-teatrale l’espediente risolve coreograficamente l’unica uscita di scena possibile dei personaggi, altrimenti intrappolati nella meccanica tragica. Dal palcoscenico nella porta principale del teatro si intravede un happy end amoroso che non toglie l’amarezza del dramma, ma che esaudisce le speranze segrete del pubblico. Come solo gli americani sanno fare.
Carolina Ciccarelli & Jennifer Malvezzi.