In un certo senso, il dolore non rappresenta più un problema per gli uomini. Fonte di ogni conoscenza, è stato analizzato, sviscerato e ha trovato ormai il suo posto nello scaffale dei valori. È diventato il sigillo dell'eroe, il contraltare fraterno della felicità che chiude il cerchio e forma finalmente la sfera da cui discendono il comico e il tragico, principali se non uniche attitudini estetiche verso l'esistenza. Il dolore è lì, lo rifuggiamo dal lato pratico e ce ne dimentichiamo spesso da quello teorico, ma non cessa di infondere di senso ciò che siamo (e ciò che guardiamo). Allo stesso modo, grazie a tante esperienze novecentesche di cui c'è ancora forte eco nella contemporaneità, anche tutte le qualità che popolano il “fuori” di questa sfera hanno guadagnato legittimità e catalogazione. Lo schifo, il disgusto, l'eccesso
splatter della visione, l'o-sceno appunto, fanno ormai parte di un immaginario comune che continua a titillare l'occhio, a volte come gratuita provocazione altre come violenta e benefica epifania.
Eppure, così facendo, rimangono escluse dallo sguardo una miriade di sensazioni intermedie, un pulviscolo di interrogativi sottesi. Dio è morto, ma ragioniamo sempre per assoluti. Dio è morto, ma “vogliamo che vivano tanti dei” e mascheriamo con la molteplicità il nostro inconfessabile desiderio di trascendenza. Che ne è allora del fastidio, del prurito, del singhiozzo e dello spasimo nascosti tra la polvere del quotidiano? Dove vanno a finire il rantolo del triviale e lo scrocchio del mediocre? Sarebbe troppo facile buttarli nel grottesco, che è in fondo una forma di nobilitazione posticcia, o nella letterarietà dell'inetto, che è poi un altro modo di astrarre ed elevare. È possibile invece una vera e propria epica immanente dello sbadiglio, un'epopea tutta materialista dello sgradevole? È possibile esplorare le soglie del pressapoco, senza che questo diventi nulla, o fermarsi alle porte del qualunque, senza sfociare nell'indefinito?
Maguy Marin, May B
(ph D.Grappe)
Di questo, forse anche un po' inconsciamente, si occupa lo spettacolo del 1981
May B (recentemente riproposto nell'ambito di VIE), uno degli apici della carriera della coreografa francese Maguy Marin. Dieci ballerini ricoperti d'argilla, già trasfigurati per le loro caratteristiche corporee oltre che nei movimenti, fanno il loro ingresso su un palco che è un limbo, una condizione liminale di eterno oblio, dove tutto ciò che accade sembra essere allo stesso tempo già avvenuto più volte e destinato a ripetersi all'infinito. É una massa di spiriti del sottosuolo che fluttua sulla scena, in cerca di qualcosa che sanno non arriverà mai (come il Godot di Beckett, alle cui opera è infatti esplicitamente ispirato
May B, tanto che la composizione di quest'ultimo è stata accompagnata da vari incontri fra la coreografa e il drammaturgo irlandese). Con un'armonia tutto sommato ben definibile ma sempre screziata da ritmiche indecisioni, piccoli elementi fuori posto e da un calcolato incespicare, i danzatori vagano ora in gruppo, ora a coppie oppure da soli. A volte si fermano, per ridere sguaiatamente o comporre strambe “partiture di incrostazioni sonore”. Altre volte si lasciano andare a gesti inconsulti che rimandano spesso a pulsioni elementari, di certo non tenere ma talmente decrepite da non risultare mai violente o sfrenate.
È un'umanità goffa e reietta, rappresa in un circolo di esclusione. Non c'è, almeno nella prima parte, alcun riscatto o redenzione così come non c'è né giudizio né condanna. C'è un'inconsapevole accoglimento della propria condizione che sfocia in uno sghembo carnevale dalle tinte buzzelliane, in cui i danzatori fanno esperienza attraverso gli altri del loro egoismo spicciolo, per fondersi in un'ingenua coscienza collettiva che non hanno voluto né cercato, ma che si gonfia sino a espungere tutto il resto. Ciò che vediamo sul palco è veramente l'Utopia, non intesa in senso classico come orizzonte irraggiungibile verso cui orientare il cammino, bensì un'utopia del qui e ora, scevra da qualsivoglia tensione verso il futuro o promessa di esodo verso il fuori.
Maguy Marin ci mostra un mondo senza Borghesia, finalmente libero dalla grazia e della mediazione dove l'assurdo non è metafisica assenza di senso ma concreta filigrana di un desiderio grezzo e verace. É come essere di fronte all'evidenza di una rivoluzione che si invera senza compiersi, che invece di assaltare il Palazzo d'Inverno ne rosicchia le fondamenta fino a cambiarne completamente la facciata.
Da questo punto di vista
May B va oltre Beckett. Accettando pienamente il non-senso e trasportandolo nel quotidiano, inchioda lo spettatore a una scelta che non lascia scampo: questa è l'alternativa che cercavate, prendere o lasciare. Eccolo qua il mondo nuovo, forse non migliore come lo si aspettava eppure sinceramente “altro” nel suo essere sempre esistito sotto la coltre del buon (o cattivo) gusto.
Tuttavia, se la prima parte apre tale orizzonte di possibilità, la seconda lo richiude di colpo pur apparendo come un ampliamento del discorso. Gli “spettri” escono di scena mangiati da una parete scura che occupa il fondo del palco e lasciano posto a veri e propri personaggi del teatro beckettiano (ci sono i protagonisti di
Finale di partita,
Aspettando Godot,
Va e vieni). La musica cala di tensione e viene ripetuta allo stremo, mentre l'atmosfera, comunque rarefatta, si scioglie in una dimensione di malinconica dolcezza. I danzatori, instabili, spesso occupano lo spazio restando fermi oppure si muovono in fila come gracili marionette, esplorando i confini del palco in cerca forse di una via di fuga o semplicemente della consapevolezza del posto in cui si trovano. È una ricaduta nel mimetismo, che certo mantiene intatte la tensione e la felicità compositive dell'inizio, portandole magari anche a un livello più compiuto, ma che in fin dei conti si esaurisce in una replicazione di Beckett, pur sublimandola nel gesto. Si affacciano, cioè, gli stessi limiti rinvenibili anche in
Bit, altra proposta della coreografa presente a VIE, dove l'afflato cosmico e potenzialmente omnicomprensivo dell'opera si risolve spesso in un simbolismo univoco che rischia di diminuire la carica visiva in favore di significati più netti.
L'assenza della borghesia si trasforma in critica della stessa e, così facendo, le conferisce nuovamente centralità, restituendoci l'idea di rivoluzione non più come ribaltamento istantaneo ma in quanto speranza per un domani (che sappiamo comunque non arrivare mai). Il non-senso, che prima formava un microuniverso perfettamente autonomo, si assolutizza e diviene il contrario del senso, legittimando implicitamente quest'ultimo. É un groppo in gola crudele che, dopo averci mostrato l'eversione nella sua nuda attualità, si chiude lasciandocene solo la promessa. Un groppo in gola che, con la sua eco dolceamara, rende
May B - strano zibaldone di anti-bellezza - meno dirompente ma forse più completo e attinente alle proprie premesse: “c'est fini, ça va finir, ça va peut-être finir” cadenzano i personaggi. La rivoluzione si farà, la rivoluzione è impossibile, la rivoluzione c'è già stata, era con noi da sempre ma ce n'eravamo dimenticati.