Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Vie a Modena e Bologna dal 13 al 23 ottobre 2016
Nell'ambito del progetto “Alla scuola di Prospero. Attori nella rete globale”, e all'interno della dodicesima edizione di Vie Festival, Antonio Latella – recentemente nominato Direttore della Biennale Teatro di Venezia – torna in scena con Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia. Al Teatro delle Passioni di Modena è stato possibile assistere alla successione di questi “ritratti”: Ifigenia in Aulide, Elena, Agamennone, Elettra, Oreste, Eumenidi, Ifigenia in Tauride, Crisotemi. Un lavoro sul mito e sulle vicende della stirpe di Atreo che ha portato alla costruzione di un unico grande spettacolo diviso in otto movimenti sviluppati attraverso percorsi paralleli ma al tempo stesso indipendenti. Dopo il grande successo di questi mesi - Santa Estasi ha anche vinto il premio della critica per avere “segnato la scorsa stagione teatrale” – abbiamo deciso di porre ad Antonio Latella qualche domanda sul processo di lavoro.
In che termini interpreta il concetto di estasi teatrale?
Credo che l'estasi sia una condizione rarissima e difficile da raggiungere. Non so se con questo lavoro l'abbiamo ancora raggiunta, forse solo a tratti. Personalmente la considero come la condizione meravigliosa in cui l'interprete entra in scena e non pensa più al suo privato né alla sua parte, al modo di dire le battute: è un collegamento con un altro tempo, con un'altra dimensione in cui l'attore smette di recitare e semplicemente è, esiste. Penso che la si possa raggiungere solo con una grande mole di lavoro, per questo l'operazione Santa Estasi è stata così lunga. L'estasi non riguarda solo l'attore ma anche lo spettatore: durante uno spettacolo di lunga durata subentra la stanchezza e questa cambia inevitabilmente il modo di guardare. Si entra a far parte di ciò che si vede e di conseguenza cambia la modalità di fruizione, si smette di “giudicare” lo spettacolo e lo si lascia entrare in sé, lo si vive. Il titolo Santa Estasi è anche ironico, dopotutto: fa pensare a “santa pace!”. Una santa estasi che forse non si raggiungerà mai.
Perché la scelta del classico?
Il classico è una struttura madre che permette di esplorare senza "farsi troppo male". Il classico è sempre più grande di te, qualsiasi cosa tu faccia. Anche quando sei in errore il classico ti protegge, ti difende, perché è sempre più forte di te. Volevo incoraggiare i giovani a rapportarsi con il contemporaneo ma anche a confrontarsi con la tradizione classica, in modo da permettere loro di accostarsi maggiormente, e quindi comprendere davvero, la grammatica del teatro. Io penso che l'unico vero insegnante sia il lavoro. Un lavoro pratico, “artigianale”, in cui si impara facendo. Volevo ci fosse questa possibilità, e l'uso del classico era il solo modo che avevo per trasmettere un pensiero ai ragazzi e alle ragazze senza la necessità di spiegarlo.
Come si è confrontato, nello specifico, con i giovani drammaturghi?
Sono drammaturghi che ho incontrato alla scuola Paolo Grassi durante un anno particolarmente fecondo e ricco di suggestioni. Ho subito apprezzato la loro capacità di scrittura, altrimenti non avrei mai pensato di portare avanti il progetto insieme. Ovviamente quando chiami dei giovani li devi lasciare liberi fino in fondo di esprimere tutte le loro potenzialità, e dunque liberi di rappresentare anche ciò che all'apparenza non funziona, a costo di portare in scena anche qualcosa che non ti appartiene, che non fa parte della tua idea di teatro. Solo attraverso la ricezione, durante le repliche con il pubblico, i ragazzi avranno un reale riscontro sulla qualità del processo creativo. Santa Estasi è un lavoro sviluppato insieme, a stretto contatto, si è creato uno scontro continuo ma prolifico non solo con la materia ma anche con i drammaturghi, e con me. Si è trattato di entrare nel loro mondo, cercando di capire le istanze che li hanno guidati nella scrittura dei testi per poi tradurle in una vera e propria scelta stilistica. Alla fine però i ragazzi hanno avuto completa libertà di riscrittura, in effetti gli otto spettacoli sono fra loro completamente diversi.
Qual è stato il metodo di lavoro che ha trasformato i testi in scrittura scenica?
C'è stato un prima e un dopo. Tra gli allievi due sono registi, altri drammaturghi “puri”, altri ancora autori. Il drammaturgo, se possiede la capacità di cambiare i linguaggi che usa, può essere considerato come un “autore che scrive per il momento”. L'autore invece non sempre si può pensare come drammaturgo, perché bisogna essere disposti a tradire la propria lingua, a fare ciò che chiede il regista ai fini della messa in scena. Noi abbiamo cercato una commistione, abbiamo tentato di trovare un accordo tra diversi linguaggi e differenti stili di scrittura, soprattutto perché agli autori risultava difficile accettare un compromesso e scendere a patti con la scena. Non sempre hanno accolto di buon grado l'idea che alcune parti del testo andassero tagliate o modificate in relazione al rapporto diretto con l'ensemble di attori. A quel punto, dove non si riusciva a trovare un compromesso inevitabilmente si presentava un ostacolo. Eppure è fondamentale trovare un accordo, una lingua comune, una scelta stilistica condivisa che permetta di superare gli ostacoli.
Cosa pensa del tutto esaurito che avete registrato in questi giorni?
Credo sia una vittoria, non solo per me o per i ragazzi, ma per tutto il teatro istituzionale, che deve avere cioè il coraggio di confrontarsi con il pubblico. Quando si presenta uno spettacolo "particolare" all'interno di una stagione teatrale abbastanza “ingessata” può accadere che gli spettatori non capiscano e restino spaesati, così si rischia di essere considerati come degli UFO. Si è soliti pensare che il pubblico abbia paura di essere messo in discussione. Io a volte metto deliberatamente in discussione gli spettatori, infatti succede che questi abbandonino la sala. Sono convinto che i teatri nazionali abbiano il dovere di creare nuovi linguaggi.
In quali termini ha senso parlare di educazione del pubblico?
Non so dire se un'educazione sia davvero necessaria. Chi sceglie di andare a teatro sceglie di assistere a qualcosa di démodé: sedersi per ore ad ascoltare parole e vedere corpi è ormai considerato “fuori moda” rispetto ai tempi in cui viviamo e, soprattutto, rispetto ai nuovi mezzi di diffusione come internet. È interessante capire perché il pubblico scelga ancora di andare a teatro. Cosa lo porta ancora in quel luogo? Mi auguro che non ci vada soltanto per passare una bella serata. Certo, il teatro è anche intrattenimento ma io sono convinto che quando andiamo a teatro scegliamo di occuparci di noi stessi. In tal senso può accadere di confrontarsi con istanze che non ci riguardano o che ci appaiono distanti, ma è proprio in questi casi che avviene una crescita. È difficile parlare di pedagogia, è un termine pericoloso. Forse il teatro è più pedagogico per il regista che per lo spettatore. Oggi, forse, può essere pedagogico per un direttore artistico trovare il modo giusto per accompagnare il pubblico a vedere proposte anche molto distanti dalle loro abitudini e aspettative.
A cura di Marzio Badalì