Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Vie a Modena e Bologna dal 13 al 23 ottobre 2016
Sei danzatrici non professioniste – o forse sarebbe meglio dire sei “non-danzatrici” – entrano in una scena spoglia che si fa semplice spazio vuoto. Una di loro porta con sé una minuscola cassa audio, una radiolina che posiziona sul pavimento, al limite del palco. Non indossano alcun costume particolare, soltanto abiti quotidiani, semplici e comodi. Hanno un abbigliamento simile ma non identico, come a sottolineare che non rappresentano alcun personaggio. Sono loro stesse, semplicemente loro: sei donne nate tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, ciascuna con il proprio corpo, con la propria storia, ma tutte appartenenti a una generazione segnata dall’idea di collettività che rimanda al contesto storico-politico della Repubblica Popolare Cinese. Si presentano allo spettatore in silenzio, senza mai parlare, ostentando un sorriso a tratti contagioso, forse persino carico di bei ricordi. Ed è questo, tutto sommato, ciò che Wang Mengfan vuole evocare con 50/60: i ricordi d'infanzia di queste donne. Tutto ha inizio con la comunità delle Damas, termine con cui si identificano ancora oggi in Cina quelle donne di mezza età che si ritrovano negli spazi pubblici dei loro quartieri per compiere danze ed esercizi collettivi. La regista – classe 1990 – tenta così di mostrare un dialogo generazionale, quello di una figlia con la madre. Wang ha lavorato per otto mesi con sei Damas cercando di guidarle in un racconto delle loro storie personali al fine di evocare sulla scena un pezzo di memoria corporea, pillole di movimento che ha poi tentato di tradurre in forma scenica. La pièce prosegue per frammenti, piccole suggestioni spezzettate, come intonazioni vocali che non si trasformano mai in canzone, ma che fanno parte di un “gioco” in cui un brano musicale di propaganda viene frantumato e interpretato diversamente da ogni Dama, fino al sussurro sommesso di chi canta tra sé e sé o di chi prova vergogna nel cantare in pubblico. Da un semplice movimento – i passi usati da bambine per un gioco d'infanzia – nasce per esempio una simpatica danza. A tratti sulla scena non appare evidente alcuna disciplina formale, coerentemente alla scelta stilistica: così le Damas chiacchierano, si correggono, a volte rifiutano di prendere parte a un esercizio, con la stessa libertà con cui si potrebbe immaginare che in Cina si vivano questi momenti collettivi di attività fisica in spazi comuni. Nel contesto del programma di Vie del 2016, che vede una grande apertura nei confronti del panorama teatrale cinese, 50/60 può dunque apparire ai nostri occhi come l'omaggio allo sforzo di un'intera generazione nel suo tentativo di cercare un po' di gioia nella vita quotidiana. L'utilizzo di forme artistiche come il canto e il ballo diventa via per trovare la felicità nelle cose più semplici. Con questa messa in scena Wang Mengfan invita la sua generazione a comprendere quella precedente e ad apprezzare questo tentativo. Lo spettacolo diventa così uno “spaccato culturale” della Cina degli ultimi sessant'anni, un'esperienza certamente rilevante dal punto di vista antropologico che però difficilmente riesce a coinvolgere completamente uno spettatore occidentale, privo dei mezzi e della materia prima per scavare insieme a loro nella memoria con la stessa nostalgica piacevolezza.
Marzio Badalì
Accostarsi a 50/60, lo spettacolo che la giovane coreografa Wang Mengfan ha presentato a Vie è un esercizio di curiosità. La proposta ha i caratteri di un ready-made duchampiano: prendere una materia prima non artistica e collocarla in un luogo dell’arte (il piccolo Teatro delle Moline) per risemantizzarla. Sei damas, nate tra gli anni cinquanta e sessanta, ci mostrano una pratica tradizionale cinese, la “Danza della piazza”: gruppi di donne che in diversi orari occupano gli interstizi del tessuto urbano, o gli spazi comuni delle comunità agricole, con una forma di danza collettiva sincronizzata. Promosse negli anni 1966-76, come parte del programma propagandistico della Rivoluzione Culturale, queste danze hanno in realtà radici più antiche nell’attitudine del popolo cinese a sviluppare momenti di lavoro collettivi su corpo e moto. Queste pratiche oggi vivono un revival dopo un periodo di oblio, e propongono di vivere il tempo libero in condivisione, motivate dall’esigenza di “tenersi in forma”, ma con una particolare attenzione rivolta all’armonia del gesto. Perché portare a teatro tutto questo? L’interesse storico-antropologico del tema avrebbe forse potuto trovare sufficiente sviluppo in un trattato scritto? Non sarebbe probabilmente bastato per descrivere l’empatia suscitata dai semplici lenti movimenti circolari, l’avvicinamento prossemico al pubblico, l’uso delle sedie per configurare lo spazio e i momenti di canto presenti. La regia completa artisticamente l’azione, per mezzo della dislocazione spaziale delle danzatrici, della scansione dello spettacolo in momenti separati e di simmetrie gestuali sempre rinnovate, adeguandola al contesto teatrale. 50/60 è un titolo che pone subito all’attenzione l’età delle protagoniste, e credo questo possa essere d’indizio per comprendere una via plausibile al senso dell’opera. L’armonia del movimento è strada percorribile da tutti. Le dama hanno trovato un modo per sfidare il tempo che passa, e, grazie a Wang, per ammantare di lirismo la prosaicità del quotidiano.
Alessandro Carraro