Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Vie a Modena e Bologna dal 13 al 23 ottobre 2016
Codici della coreografia sradicati, sul palco solo un centinaio di corpi che si coordinano e si parlano. Il suono riprodotto da un coro è il burattinaio della scena, ne prende possesso per indagare la storia del movimento, l’andare e il tornare, il salire e lo scendere. È Ballo 1890_Natura morta, lavoro di Virgilio Sieni che ha debuttato in prima assoluta all’interno di Vie 2016 al Teatro Storchi di Modena. Dopo il primo progetto Home_ Quattro case, realizzato con ERT a Carpi a seguito del terremoto nel 2013, e dopo diversi progetti in altre parti d'Italia il coreografo toscano continua il suo lavoro di analisi e studio dell’archeologia del gesto che ha per protagonisti danzatori non professionisti e intensifica la collaborazione con la Corale G. Savani diretta da Giampaolo Violi. Qui Sieni guarda affascinato il profilo artistico di Giorgio Morandi, pittore nato a Bologna nel 1890.
La filosofia e il disegno coreografico sono un de rerum natura di lucreziana memoria mentre viene esplorata l’opera artistica del pittore bolognese. Curioso come l’ispirazione di Virgilio Sieni derivi proprio dalla natura morta di Morandi, artista atipico nel panorama del Novecento perché slegato da gruppi o movimenti, figura solitaria e priva di contatti con altri pittori e maestri del tempo. Sieni porta sul palco la collettività, una moltitudine di atomi legati l’uno con l’altro in modo simbiotico. Egli fa del singolo individuo un tassello di un mosaico in movimento; fa di quell’incessante muoversi corale un unico mare che travolge e coinvolge chi è dal lato opposto del palco seduto e immobile. I corpi vestiti di abiti larghi e semplici, colorati con tonalità autunnali e di una tessitura leggera tanto da ondeggiare ad ogni movenza ricordano il vento che sposta le foglie. Si toccano l’uno con l’altro ascoltando i comandi del coro a ritmo scandito e ipnotico come una litania materna, così lo spettatore è trascinato nella proliferazione continua di movimento cullato in un abbraccio tenero e familiare. Sul palco un turbine di tanti atomi di un unico corpo, tutto scorre nel fiume del tempo ignoto. Nessuno può sapere quando esso ha inizio e quando ha una fine, solo il coro sembra esserne il profeta.
Laddove Morandi ritrae nature morte indagando in modo maniacale come la luce batte sulle cose e rappresenta una dimensione quotidiana pulsante di vita, Sieni orchestra una danza corale che trabocca di vita. Attraverso la musica dal vivo il coreografo da forma a bottiglie, soggetto caro alla pittura di Morandi, insieme a vasi, ceste, oggetti d’utilità quotidiana, foglie e frutti; attraverso i tanti corpi pulsanti lascia che la molecola di luce da cui tutto prende forma esploda. Una coreografia radicata sullo schema di ripetizione ed esecuzione, scomporre e ricomporre, implosione ed esplosione, movimenti sciolti di corpi che volteggiano e formano una congiunzione tra ogni sali-scendi, ogni apri-chiudi, ogni alba e ogni tramonto. Mentre Morandi si serve di pochi soggetti, sempre gli stessi osservati da diverse prospettive di luce, Sieni scorpora la materia con una pluralità di corpi. Tuttavia, anche Sieni è attratto dall’atmosfera meditativa e contemplativa della quotidianità e rappresenta la ripetitività morandiana proprio con il movimento. Il rigore formale della produzione di Morandi conferisce una solennità pacata e austera anche agli oggetti più semplici e banali, a cui ci riporta la danza di Sieni.
In Ballo 1890 Sieni scalza il maestro dal suo baldacchino, sfila la corona d’alloro al danzatore di professione e la porge a mamme, studenti, pensionati, diversamente abili, nonni, bambini. Anche loro possono emanare luce come le nature morte di Morandi, con semplicità sublime. Cosa sopravvive allora dell’opera classica? Il gesto che sfonda il palco e la distanza tra spettatore e palcoscenico, il suono della corale che comanda le azioni. Perché di per se il corpo in azione è già materia artistica e teatrale. Non esiste bellezza in quanto concetto astratto e idealizzato ma la sua concretezza e relatività sul palcoscenico, dove anche spazio e tempo sono annullati e lo spettatore viene portato in una dimensione parallela. È quella bellezza che si traduce in divino perché radicata nella semplicità del movimento.
Nel finale le braccia al vento evocano lo scuotimento delle foglie, ancora una volta guidate nell’azione dal suono, che nel continuo ondeggiare porta lo spettatore verso il desiderio di fare parte di questo vortice e scavare nel proprio corpo, producendo un unico, corale atto.
Ilaria de Lillo