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LABORATORIO DI GIORNALISMO E CRITICA > Automi ai confini dell'Europa: le pratiche di coreografia politica di Arkadi Zaides

ph:Dejana Lother



Al Mast di Bologna per Vie Festival il 20 ottobre è andato in scena TALOS del coreografo bielorusso-israeliano Arkadi Zaides. Protagonista di questa performance inusuale e sottilmente provocatoria l'omonimo programma di pattugliamento delle frontiere sperimentato dall'UE. Tra proiezioni, grafici e video stilizzati dei flussi migratori, sorge una domanda: cosa c’entra tutto ciò con il teatro e la coreografia? Abbiamo incontrato l'autore per scoprirlo.

Cominciamo dall’inizio: che cos’è Talos?

Talos originariamente è una figura della mitologia greca. Sono molte le storie legate ad essa, ma la versione che ha maggiormente destato la mia attenzione racconta di un essere metà uomo e metà macchina, dono di Zeus alla ninfa Europa durante la sua prigionia sull’isola di Creta. Compito di questo automa era quello di pattugliare tre volte al giorno le coste dell’isola, proteggendo Europa da chiunque tentasse di raggiungerla. C’è però anche un altro riferimento, fondamentale per l’ideazione del mio progetto: TALOS è l’acronimo di Transportable Autonomous Land bOrders Surveillance, il programma sperimentale finanziato dall’Unione Europea nel campo delle politiche di securizzazione  dei propri confini. La sperimentazione ha avuto luogo in Polonia tra il 2008 e il 2012, coinvolgendo diverse istituzioni europee provenienti da una decina di paesi membri, oltre alla collaborazione esterna di Israele e Turchia. Il suo scopo principale: attivare un innovativo sistema di controllo delle frontiere in grado di alleggerire e progressivamente sostituire la presenza umana attraverso l’impiego di robot semoventi. Il mio intento è di sovrapporre le due fonti, esplicitando così l’eco cercata già nel nome dal programma europeo. Prendo le due storie e le lego in un’unica performance: in fondo entrambe le narrazioni parlano di messa in sicurezza, la prima  attraverso la parola mitica, la seconda più concretamente guardando alla capacità effettiva e ai risultati dell’applicazione pratica di questi dispositivi robotici a difesa delle frontiere.

Quali sono state le tue impressioni davanti a questo sistema?

In verità non mi è stato possibile osservare TALOS in attività. Quando mi sono recato in Polonia la fase sperimentale era stata ufficialmente dichiarata conclusa e il programma è stato ritirato senza passare alla fase operativa. Mi sono trovato nel bel mezzo delle procedure di smantellamento dell’infrastruttura, tuttavia ho avuto immediatamente l’impressione di trovarmi davanti a un progetto eccezionale: un tentativo di immaginare qualcosa di non prefigurato per il futuro, un nuovo tipo di coreografia ai confini, un nuovo tipo di interazione che è un’interazione fisica, di movimento, un’interazione dinamica tra persone e macchine proprio alle frontiere. Certo, facciamo già largo affidamento sulle macchine nelle zone di frontiera, ma si tratta di dispositivi statici, diversi tipi di scanner, metal detector, gate automatizzati. Ciò che mi ha colpito in TALOS è che ha prefigurato dispositivi in grado di attuare “un’interazione mobile” con l’essere umano.

Perché secondo te il progetto europeo non ha superato la fase sperimentale?

Durante la mia ricerca sul campo ho avuto modo di confrontarmi anche su questo con uno dei coordinatori delle istituzioni coinvolte. La sua risposta, che ha molto più a che fare con noi che non con limiti tecnologici, è stata: «Le persone non sono ancora pronte». Evidentemente c'è una sorta di esitazione rispetto a queste nuove macchine che operano in maniera autonoma e a diretto contatto con gli esseri umani. Altrettanto importante è la dimensione giuridico-normativa riguardante l'interazione uomo-macchina: le restrizioni sono ancora numerose, specialmente in aree sensibili come le frontiere. A ciò si aggiungono, ovviamente, delicate implicazioni etiche, ma il mio lavoro si sofferma soprattutto su questo diffuso senso di non essere preparati e sul conseguente disagio di fronte a un’inadeguatezza sia formale che relazionale. Mi chiedo allora cosa dovrebbe prevedere l’innovazione perché le persone siano pronte e quando questo potrebbe avvenire. O forse siamo già proiettati verso una dimensione che permetterà di accogliere una maggiore implementazione di progetti simili?

Per quale ragione in TALOS hai scelto di adottare la forma della conferenza? Che ruolo ha il tuo background coreografico?

Non parlerei di conferenza, termine che in genere tendiamo ad associare con il discorso accademico: la mia è piuttosto una forma di presentazione. Credo che questo format sia molto più affine a un certo tipo di prodotto informativo-promozionale appartenente al registro dell'advertisement e per questo estremamente rappresentabile. Si serve degli stessi strumenti di messinscena, dei medesimi apparati scenici per presentare un nuovo prodotto così come ormai siamo stati abituati dalle grande presentazioni della Silicon Valley, secondo quello che potremmo definire il “canone Apple”. Nel caso del programma TALOS la comunicazione politica istituzionale assimila queste forme per presentare un avveniristico sistema di controllo delle frontiere: è il progetto reale stesso a concludersi con un grande evento con un palco, uno schermo, brochure e persino stickers. In questo senso replico la stessa formula e la trasformo in una citazione, un riferimento mimetico al progetto originale applicando “un’attenzione coreografica” all'apparato di presentazione. L'aspetto coreografico si sviluppa quindi su due livelli: uno è legato a questo carattere di rappresentabilità dell'advertisement, in cui lo speaker è coreografo e segue una coreografia dove  gesti e movimenti specifici scandiscono l’andamento della performance; l'altro livello, il centro del discorso, è quello espresso direttamente dal programma effettivo, dall'idea stessa di un'inedita interazione alla frontiera tra esseri umani e macchine di cui cerco di immaginare tutte le potenzialità attraverso un lavoro analitico.

Che relazione intercorre tra coreografia e politica?

Guardare alle relazioni tra la pratica coreografica e la politica è  per me una questione cruciale che da tempo guida il mio lavoro. Dal mio punto di vista, come d’altronde sottolineano molti studiosi e ricercatori che si occupano della tematica, molto di quanto sta accadendo nella sfera politica è legato al movimento. In questo senso la coreografia rappresenta uno strumento rivelatore negli spazi aperti dal nostro tempo. Nelle aree di confine osserviamo movimenti lungo le frontiere da cui scaturiscono nuove coreografie: chi passa, chi viene bloccato, quale grado di libertà di movimento esista e come viene disciplinata. Si sviluppano nuove forme di interazione tra le persone che tentano di attraversare le frontiere e tra chi tenta di impedirglielo e per me tutte queste “movenze” si prestano alla prospettiva coreografica.

All’interno della tua osservazione che posto occupano le macchine? Dove si incontrano la coreografia e l'automa Talos?

Dal punto di vista del movimento, le macchine stanno diventando decisamente efficaci nell’imitare l'uomo. Ciò che non riescono ancora a imitare è il processo di decision-making, rendere la macchina capace di prendere decisioni basandosi sull'applicazione di protocolli. Installando questo nuovo tipo di macchine in aree altamente sensibili come le frontiere, sorgono urgenti e inevitabili questioni di natura etica: se l’essere umano può provare empatia e manifestare una risposta emotiva nei confronti di un suo simile intento a oltrepassare una frontiera che sta proteggendo, l’incontro con gli automi avverrà in maniera completamente diversa, essendo questi ultimi privi di emozioni e incapaci di trattare casi che divergono dalla missione programmata. Questa credo sia la questione  più urgente rispetto al futuro.

Qual è il tuo rapporto con testi e materiali della tradizione filosofica che tentato di indagare il ruolo del corpo nel politico? Pensiamo a Foucault, Agamben…

Sento questi pensatori molto vicini e credo di essere in sintonia con le questioni che delineano, anche se in altri termini, rispetto alla relazione tra potere, individuo e “nuda vita”. Nel caso di TALOS, il potere è in qualche modo incapsulato in un dispositivo che diviene estensione del potere sovrano; l’eccezionalità del progetto sta a mio avviso nell'aver immaginato un altro tipo di corpo politico che rappresenti il sistema: non più un corpo umano, bensì uno macchinico. Questo si misura con la riflessione politica contestandone limiti e orizzonti tradizionali.

Se dovessi azzardare una previsione, diresti che è soltanto una questione di tempo prima di vedere TALOS pienamente operativo?

Citerò direttamente le conclusioni esposte dall'UE:
«Nel campo della sicurezza dei confini, TALOS apre la strada a equipaggiamenti di sorveglianza di nuova generazione. Sistemi basati sul concept di TALOS non solo saranno efficienti, veloci e affidabili. TALOS rappresenta anche un altro passo nella direzione di soluzioni di sicurezza convenienti. Ciò consente di giungere alla conclusione che il processo di sostituzione di figure umane con robot sia in operazioni di routine sia ad alto rischio verrà continuato e persino accelerato nel prossimo futuro».

Guardando alla tua biografia, hai lasciato la Bielorussia sovietica per trasferirti in Israele – paese decisamente controverso rispetto alla questione delle frontiere. Quale marchio lascia la politica sul corpo nella sua dimensione collettiva ma anche alla luce della tua esperienza personale?

La mia vicenda biografica è chiaramente riflessa nel mio lavoro artistico. Io sono uno straniero, affronto l’esperienza di essere emigrante fin da bambino: in Unione Sovietica appartenere alla comunità ebraica non era certo qualcosa per cui sentirsi a proprio agio. Di contro la stessa identità ebraica ha facilitato la mia integrazione in Israele, da tre anni poi vivo in Europa e faccio i conti con una terza diversa esperienza di estraneità. Tutto questo segna davvero il corpo. Certo, posso ancora considerarmi un privilegiato: il mio arrivo in Israele sarebbe stato molto diverso se fossi stato, poniamo, palestinese; inoltre devo molto alla mia posizione di artista e all'interesse che c’è per la mia figura e questo influisce considerevolmente a mio favore quando mi trovo ad attraversare frontiere territoriali.


Ilaria Cecchinato, Gianluca Poggi
laboratorio Per uno spettatore critico

         

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Santarcangelo · 13
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aprile 2013
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Arca Puccini - Musica per combinazione
Rock indipendente italiano e internazionale