Beppe e Beppe li incontriamo il giorno prima del debutto, nel ridotto del Teatro Petrella. Il viaggio è stato lungo, ma non ci sembrano affatto stanchi. Al contrario: i due dialogano animatamente, hanno voglia di raccontare e di raccontarsi, sempre pronti a inserirsi nel flusso discorsivo del compagno, anche interrompendo, alzando la voce, gesticolando scherzosamente. Cominciamo quindi dalle origini.
Chi sono, come nascono e come lavorano i Sutta Scupa? E lo spettacolo Sutta scupa?
Suttascupa è il nome dello spettacolo ma anche della compagnia: sentivamo l'esigenza di trovare un nome che fosse per noi significativo. Suttascupa significa "sotto pressione", è uno stato di vita, che in un qualche modo ci appartiene. Forse si tratta di una fotografia della nostra generazione. Quando si è sotto pressione si riesce a fare delle cose, mentre al contrario il troppo agio, soprattutto quando si è giovani, gioca a tuo sfavore. Ma sotto pressione è indubbiamente anche la società contemporanea. È quindi un doppio percorso, che afferisce a una storia personale e a una condizione più generalizzata.
Il lavoro nasce nel 2006, lo spazio per le prove è stato inizialmente un centro sociale occupato di Palermo, l'Ex carcere. Volevamo addentrarci in una tematica che toccasse tutti come è la precarietà. Ma non ci siamo fermati alla cronaca, per così dire: dopo qualche prova è nata spontaneamente la l'indagine attorno all'attesa, che abbiamo sviluppato, e sempre durante le prove abbiamo ricevuto la visita di Beckett: è come se avessero bussato alla nostra porta Vladimiro ed Estragone in persona e avessero fatto notare a Giovanni e Vito, i due personaggi dello spettacolo provenienti dal sottoproletariato urbano, che l'esperienza dell'attesa loro l'avevano già vissuta! Dopo una prima fase underground, in cui abbiamo fatto vedere il lavoro in centri sociali e circuiti "off" passando per alcune tappe intermedie di studio, c'è stato l'interessamento del Teatro Garibaldi di Palermo, che attualmente ci ha inserito nella sua distribuzione.
Per quanto riguarda la costruzione del lavoro cerchiamo di fare convivere due piani: una zona molto emotiva, di forte comunicatività, abbinata a un rigoroso controllo dell'espressione fisica, che si rende necessaria se si utilizza la "veemenza espressiva" del dialetto. Il dialetto riporta a una carnalità e a una intimità primigenie, che a livello di movimento fisico possono portare a sfasature e scompensi. C'è poi da dire che utilizziamo il dialetto come una vera e propria lingua, che sostituisce in tutto l'italiano, compresa la sintassi: Pasolini diceva che l'unico teatro accettabile è quello dialettale o quello in cui è presente una koinè dialettizzata. Nei nostri giorni, al contrario, ci sembra che il dialetto troppo spesso compaia in modo volgare o qualunquista, cosa che noi abbiamo cercato di evitare. A questo proposito, pur nelle diversità estetiche, un nostro grande maestro è Franco Scaldati, punto di riferimento imprescindibile per quanto riguarda la lingua.
Come vivete l'appartenenza a un ambiente, quello del teatro siciliano, che negli ultimi ha avuto così tanta visibilità? Non correte il rischio di nascere già etichettati?
Dipende dai casi, non c'è una risposta unica. Certo riconosciamo di essere cresciuti in un contesto fertile, basta pensare a Emma Dante o a Davide Enia. Il punto fondamentale sta nel riuscire a interiorizzare quello che vedi affinchè diventi un linguaggio autonomo. Senza poi volere essere campanilisti, bisogna dire che in questo momento l'underground palermitano vive un momento molto felice: andando a vedere le prove di alcuni nostri colleghi, anche più giovani di noi, ci accorgiamo che il livello qualitativo è alto. Inoltre, sembra che in questo momento si sia creato quasi un tessuto, una comunanza d'intenti che ti spinge a vedere i lavori altrui, discutere, mettere in circolo idee.
Volete descriverci il vostro metodo di lavoro? Per esempio, la scrittura: si è trattato di un momento che precede l'inizio delle prove?
No, in questo spettacolo abbiamo utilizzato una scrittura scenica totalmente intrecciata alle prove. C'erano ovviamente delle tematiche che volevamo affrontare, ma la drammaturgia scritta è stata prodotta proprio sulle assi del palcoscenico. Beppe Massa si è occupato della reale stesura dei materiali, che è avvenuta prima, durante e al termine di ogni seduta di prove. La regia è stata affrontata in maniera collettiva, non c'è stata una figura che assumesse completamente su di sé questo compito. Ovviamente non è stato un percorso semplice, anche ogni piccola scelta è stata discussa e avvallata da tutti, e la collegialità produce anche molti intoppi e crisi.
Stiamo sul cosiddetto "teatro politico". A fronte di una situazione italiana che privilegia l'argomento politico in lavori di narrazione, che sfiorano quindi il documento, il vostro caso è forse anomalo, perché del tutto teatrale. Cosa ne pensate?
Forse il nostro lavoro, più che politico, potrebbe essere definito sociale. Come dicevo, cerchiamo di non soffermarci solo sul piano della cronaca, ma tentiamo di inserire degli elementi che trascendano il puro dato di attualità. Anche nel prossimo lavoro, che sarà su Sacco e Vanzetti, proviamo ad affrontare anche dei temi per così dire "filosofici" e universali: parleremo di Sacco e Vanzetti senza ricostruirne la storia, così come parliamo di precariato tentando di toccare corde più generali. In questo equilibrio, forse, sta la nostra politicità.
Cosa significa, al giorno d'oggi, essere una giovane compagnia indipendente? Potreste descrivere una pratica che permetta, nelle difficoltà organizzative che tutti conosciamo, di mantenere una propria identità?
Si tratta di un equilibrio precario, sempre su una linea di confine. Abbiamo provato a muoverci sia nel contesto alternativo, come i centri sociali, sia in quello istituzionale, come il Teatro Garibaldi. Nel primo caso si va incontro a un rischio di eccessiva ghettizzazione, cosa che vorremmo evitare. D'altro canto, però, possedere un luogo totalmente svincolato da scadenze e progetti produttivi grossi, è garanzia di una certa e indispensabile autonomia. Ci piace saltare dalle feste patronali a palcoscenici più prestigiosi, anche come esperimento interno della compagnia. É necessario non precludersi nessuna strada, e continuare strenuamente a credere in quello che si fa anche senza lavorare in maniera totalizzante in funzione di riconoscimenti e produzioni esterne.