Ooff Ouro nasce in Sardegna nel 2000 all'interno dell'associazione Officina Ouroboros, dopo avere sperimentato una serie di collaborazioni con realtà autogestite in giro per l'Italia. Da quel momento abbiamo posto al centro della ricerca il problema della rappresentazione, attraversando suono, danza, teatro e tutto ciò che riguarda lo spazio scenico. Ci siamo mossi tentando di trovare le condizioni migliori per ogni singolo lavoro, come una sorta di compagnia “migrante”: i primi due anni li abbiamo passati in Sardegna, successivamente ci siamo divisi tra Polonia e Inghilterra. In quel periodo abbiamo sviluppato a livello di teoria e di pratica il Sistema Trilite: un approccio che ci ha permesso di individuare nuove modalità di ricerca, un atto puro performativo che accoglie in tempo reale l'audio e la danza.
Ci spieghi meglio in cosa consiste il Sistema? Mi sembra che nei tuoi lavori emerga in maniera chiara la necessità di individuare un metodo partendo da una nuova grammatica, quasi a rifondare un vocabolario. Perché?
Sento l'esigenza di costituire un oggetto, che possa divenire la base di quello che di volta in volta indaghiamo, e che potrei definire genericamente il “problema”. Il metodo è una base solida, proprio come le fondamenta di un edificio. Autogenerando un sistema si ha forse il privilegio di possedere più chiavi di soluzione al problema, evitando di considerare il lavoro finito, lo spettacolo, come unica possibile strada.
Quello che è successo con il Sistema Trilite è stata una sorta di coincidenza: ci siamo resi conto che la rappresentazione del sistema, che approcciava un'idea di rappresentazione del problema, stava avvenendo tramite lo spettacolo stesso. Lo spettacolo era il luogo per la prima messa in pratica del metodo: l'indagine e la performance coincidevano, producendo ricorsività.
Questo vale anche per Abq?
Quello che muta in Abq è la messa in opera di una struttura rigida, desunta da una progettualità a priori in grado di determinare una precisa strada di sviluppo del lavoro, pur diversificata nei risultati. Rimango convinto, quindi, che per parlare di opere sia fondamentale la costruzione di un metodo. Abq è un progetto triennale, sviluppato come viaggio orizzontale da occidente a oriente. Ha toccato l'India, toccherà in questo luglio la Cina e nel 2008 arriveremo in Iran, presumibilmente. Abq vuole ripercorrere a ritroso la nascita del concetto di zero, e in questo di avvale di Quad di Samuel Beckett: riscrivere Beckett a livello performativo risalendo ai luoghi di nascita dello zero.
Come entra il contesto sociale, culturale o politico indiano nel tuo lavoro?
In partenza mi sono imposto di escludere tutto quello che si portava con sé una visione europea del contesto orientale e indiano. Mi piaceva utilizzare il numero come elemento di neutralità e purezza, scartando ogni possibile ridondanza “occidentale”. Mi sono messo in una condizione di ascolto “paritario”, in cui era possibile far dialogare il numero indiano con il mio concetto di numero, per poter poi giungere al ritrovamento di codici binari, un linguaggio interpretativo in un qualche modo comune tra il mio linguaggio e quello che incontravo in India. Inevitabilmente c'è stato un avvicinamento della mia sensibilità alle tecniche orientali, intese come linguaggi tradizionali della danza ma anche come rinascita tecnica della nuova India, in riferimento alle nuove tecnologie legate alla software ingeneering. In questa nuova era tecnologica c'è anche l'idea di una nuova era sociale, ormai lontana dalla caste ed estremamente vicina all'occidente: in questo contesto potevo recuperare il concetto di codice binario. Col passare del tempo mi rendevo conto che questo avvicinamento diventava “altro”, allontanandosi sia dalla tradizione indiana sia dal nostro concetto di modernità. Si tratta di un percorso verso una ricchezza “terza”, che mi ha fatto sentire molto vicino all'India contemporanea.
Anche quando mi sono relazionato alle danze tradizionali del sud dell'India, il Kathakali e il Bharata Natyam, ho cercato di farlo non dal punto di vista delle tecniche ma delle relazioni spaziali, temporali e strutturali, in altri termini numeriche.
La mia sensazione, vedendo i tuoi lavori, è che sia presente un contenitore scenico vivente, che impone le sue regole sulla presenza umana, rendendola subalterna. Quasi che la coreografia si ribaltasse: da luogo disegnato dalla mente dell'uomo ad adattamento a uno spazio già disegnato e limitato, nel quale il coreografo deve trovare delle strade possibili. Cosa ne pensi?
Sì, è un'idea interessante. In Au Bo, per esempio, c'erano delle dichiarazioni programmatiche relative al movimento, come a esplicitare preventivamente il progetto compositivo aspettandone gli imprevisti. In Abq lo spazio, il piano su cui la presenza corporea agisce, è un involucro che racchiude il movimento, che impone dei binari stretti e forse impossibili da scardinare. Qui c'è la derivazione beckettiana, in cui le indicazioni date sono molto precise. Il concetto di istruzione fisica nel mio lavoro è esasperato, quasi millimetrico: lo spazio ha la priorità, il corpo percorre lo spazio come una gabbia, le luci illuminano non il corpo ma il territorio in cui questo deve stare. Il corpo si annulla, non danza ma calcola le dimensioni del suo procedere. Tutto è coreograficamente calcolato fino alla maniacalità, le esigenze di precisione sono fondamentali. Il progetto per la seconda tappa, che si svolgerà in Cina, ribalta la prospettiva: cancella il luogo, lo distrugge, per ricostruirlo attraverso la posizione dei corpi. Come un'assenza di gravità in cui il pavimento non è più necessario e si arriva all'idea di uno spazio organico che muta con lo spostarsi dei corpi.
Cosa significa, al giorno d'oggi, essere una giovane compagnia indipendente? Potresti descrivere una pratica che permetta, nelle difficoltà organizzative che tutti conosciamo, di mantenere una propria identità?
Una premessa: mi sto ancora interrogando sul significato di “compagnia giovane”. Si tratta di età anagrafica dei componenti? Di longevità del percorso? Forse sarebbe meglio parlare di approcci al lavoro, e forse solo in questo contesto è giusto utilizzare la parola “nuovo”. Per quanto riguarda gli Ooff Ouro, che lavorano da ormai sette anni, è corretto mettere in campo l'aggettivo “giovane”? Non lo so, vi lascio la domanda aperta come dubbio.
Detto questo, prima ho parlato di teatro migrante. Noi abbiamo sempre cercato di sopravvivere come l'acqua in cerca di fessure, trovando i contesti ideali per lo sviluppo di una determinata parte della nostra ricerca. Forse si tratta di una modalità di “non-luogo”, o meglio che sposta il luogo di lavoro nel concetto di corpo, permettendo di portarselo dietro ovunque si vada. Da diversi anni ci trasferiamo in contesti diversi a seconda delle esigenze: due anni in Sardegna, due anni in Polonia, sei mesi in India, tre in in Cina. Ci tengo però a sottolineare che non si tratta di nomadismo: parlerei piuttosto di un temporaneo adattamento per far sì che l'idea che è necessario sostenere trovi il contesto più servibile per nascere. Mi piace immaginare la cosiddetta sede operativa come una struttura facile da smontare e incendiare a seconda delle esigenze.