Quando nasce Cosmesi e come lavora?
Cosmesi è un gruppo artisti visivi che si occupa di teatro. La nostra formazione, quindi, è molto diversa rispetto a quella di una “normale” compagnia teatrale. Le parole chiave del teatro, come regia, drammaturgia, illuminotecnica, non ci interessano più di tanto. Nonostante questo, abbiamo deciso di affermare che facciamo teatro. La compagnia si forma nel 2001, ma il primo lavoro, Avvisaglie di un cedimento strutturale, debutta nel 2003. Inizialmente abbiamo fatto tutto il giro delle Pro-loco friulane, e immaginerai i commenti delle persone che uscivano prendendoci per folli (risate). Dopo avere affittato un furgone, cosa già per noi proibitiva dati i costi, abbiamo provato a girare un po', fino a quando nel 2005 lo spettacolo è stato selezionato per il concorso bolognese Iceberg e lo ha vinto. Questo episodio è stato un punto di svolta, da quel momento la nostra storia di compagnia è stata, per così dire, più felice.
Forse Cosmesi può, più di altre compagnie giovani, essere avvicinata alla generazione precedente, i “teatri 90”. Siete d'accordo?
Indubbiamente c'è stato un humus nel quale siamo cresciuti, ci siamo formati vedendo i lavori in questione e in parte anche lavorando direttamente in alcuni spettacoli di quest'ambito. Detto questo, però, è ormai subentrato un fisiologico distacco, almeno per quanto riguarda le proposte estetiche. Bisogna ribadire che il nostro background di partenza non è colto rispetto al teatro, o almeno è molto più colto su altre discipline. Quando abbiamo iniziato a fare teatro eravamo attirati da un approccio “altro” rispetto all'ambito strettamente teatrale. Per esempio la componente testuale è sempre stata lontana dalla nostra sensibilità, mentre la dimensione figurativa era ed è sempre stata centrale. Vorremmo poi precisare la nostra concezione dello spazio scenico. Per Cosmesi il teatro non esiste al di fuori della scatola, del contenitore che costruiamo. In Avvisaglie avevamo una scatola bianca oblunga tempestata di rosso: quello era il teatro. In Mi spengo in assenza di mezzi era tutto buio, non avevamo le risorse economiche per fare diversamente: dunque il teatro era buio. Non ci interessa produrre qualcosa di bello e fittizio, che basti a se stesso. Tutto quello che costruiamo deve diventare un'architettura di scena, uno spazio fruibile e fruito che permetta di venire riempito. Solitamente partiamo da qualcosa di molto concreto, che ti impone già dei limiti e delle richieste precise: il buio o le architetture che creiamo, come per esempio in La primadonna. Le definiamo “protoregie”, dimensioni già impositive a partire dai materiali, dalle luci, dai mezzi tecnici. Tutto è sempre funzionale ma anche scelto a livello poetico a monte, non si tratta mai di ragioni semplicemente estetiche.
Avere trasferito le rivendicazioni di assenza di mezzi in più di un lavoro non vi fa correre il rischio di scivolare in una polemica sterile? O, detto altrimenti, di rinunciare a proporre?
Siamo partiti da una domanda: perché continuare? La questione riguarda tutti, non Cosmesi o i tanti altri che versano e verseranno in difficoltà produttive e di sopravvivenza. Mi spengo in assenza di mezzi è un atto forte, per tutti, abbiamo voluto segnalare cosa è il teatro in queste condizioni. Evitando di andare ai soliti dibattiti, magari ben vestiti, a dar sfoggio della lamentela pubblica. La questione fondamentale è che ci siamo divertiti enormemente, non abbiamo certo pianto tutto il giorno!
Cosmesi lavora molto sui limiti, sulle condizioni date. Se in Avvisaglie queste erano una stanza bianca, in Mi spengo il limite è, in un qualche modo, il teatro stesso. Non è una rivendicazione sindacale, forse è più un gioco consapevole con il sistema e le sue strettoie odierne, crediamo inserito nel nostro percorso. L'approccio è il medesimo, sono le condizioni di lavoro e di partenza a essere diverse.
Allora, forse, la complicità che richiedete allo spettatore è in Mi spengo molto elevata. Forse avete lavorato pensando a uno spettatore estremamente “vicino”...
Certo, ma lo spettatore oggi è complice o non è. Conosciamo forse uno spettatore anonimo, “vero”, generalista? Era inutile porsi dei problemi per delle ipotetiche difficoltà di fruizione per uno “spettatore comune”, dal momento che questo oggi non esiste più.
Veniamo alla Primadonna. Stando su questo discorso dello spettatore, arrivate addirittura a lanciare in platea un uovo. Perché?
La primadonna nasce per il festival della performance di Trento, quindi è stato pensato per un'occasione molto precisa. Il lavoro è un “giocattolone” che riflette sul tema della creazione, della costruzione di una forma perfetta. È vero che l'uovo può richiamare il lancio del pomodoro marcio, però nel nostro lavoro viene scelto più come simbolo della perfezione, della fatica della creazione, del ciclo nascita-morte. Siamo partiti chiedendoci perché la signorina in bianco che sorride funziona di più, e siamo arrivati al simbolo dell'uovo all'interno di questo percorso di avvicinamento alla nascita di una forma. La primadonna è il primo passo verso il nostro prossimo lavoro, più impegnativo dal punto di vista produttivo, che si chiama Lo sfarzo nella tempesta e che debutterà a Santarcangelo. Qui indagheremo il tema dell'ostentazione, dell'opulenza, intese come momenti precedenti alla distruzione.
Cosa significa, al giorno d'oggi, essere una giovane compagnia indipendente? Potreste descrivere una pratica che permetta, nelle difficoltà organizzative che tutti conosciamo, di mantenere una propria identità?
Quattro anni fa inviammo il nostro progetto di Avvisaglie a una grande quantità di festival, concorsi, teatri ecc. Su cinquanta proposte abbiamo ricevuto 48 non risposte, neppure un «grazie valuteremo». Già questo significa essere indipendenti, significa capire con chi stai avendo a che fare. Da quel momento in poi valutiamo con minuzia qualsiasi proposta. Crediamo di avere assimilato una dimensione imprenditoriale avanzata: siamo in grado di trovarci finanziamenti, sponsor, tecnici, ingegneri... è una rete di relazioni fondamentale e che permette la reale riuscita di un progetto anche senza avere tutte le possibilità produttive del caso. Però, attenzione: questo non significa trovarsi all'interno di un “movimento indipendente” sulla scia del teatro degli anni '70. Si tratta di un momento concluso, dal quale abbiamo imparato molto anche ripercorrendone gli errori. Oggi ci troviamo a essere “custoditi”, autoreferenziali da molti punti di vista: sappiamo che là fuori ci sono 48 non risposte. Ci rendiamo conto che ci sono tanti gruppi nelle stesse condizioni, ma questo oggi non porta a un amalgama, e neanche a un progetto di amalgama:l'immagine è quella della rete, formata da tanti punti indipendenti, solidali, trasparenti, ma che non si fondono in un fronte comune, come era stato forse il caso della generazione che ci ha preceduto.
Detto questo, il periodo che stiamo vivendo è particolare: è come se fossimo all'indomani di una guerra, o di una carestia. Ci si sta rendendo conto, forse per la prima volta dopo molto tempo, che molte persone si trovano a condividere un luogo e una forma espressiva, il teatro, e questo porta a una ricca circolazione di idee e in alcuni casi di spettacoli. Forse sono i tempi, forse la cenere dopo aver coperto ogni cosa inizia a concimare il territorio. Ovviamente ci sono alle spalle anche convenienze pratiche, per esempio il fatto che le giovani compagnie costino poco e siano pronte ad adattarsi a qualsiasi condizione.