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INTERVISTE > Passeggiando nella Radura
Vieni a Lavori in Pelle da molti anni, conosci molti gruppi di danza e di teatro, da osservatore secondo te cosa sta succedendo? Cosa succede nel panorama più sommerso?
Sinceramente sono distaccato come spettatore. Fino a 4-5 anni fa avevo una tensione anche per i lavori che non mi sembravano convincenti, li collocavo all'interno del percorso globale di una generazione che fa ricerca. C'era un momento in cui il festival, Lavori in Pelle, era molto ricco, c'erano gruppi che anche nella precarietà della proposta lasciavano intravedere delle ossessioni, delle necessità interne. Poi ci sono stati momenti in cui questa necessità sembrava sparita. Non è un problema che sento molto, perché non sono comunitario. Quando vedo cose che non m'interessano, me ne vado. Sono molto distante. È cambiata la mia consapevolezza su dove si colloca il mio lavoro, e rispetto al contesto globale non ho fiducia proprio nella "rappresentazione" di stampo occidentale. Sento proprio un disagio e, che si percepisca o no, noi in sala prove ci stiamo male. Ci facciamo dei problemi ad andare in scena, l'affrontiamo in un rapporto controverso. Infatti io non ci vado più. Forse sono molto impegnato a risolvere questo e quindi non posso concentrarmi su altro, soprattutto quando quest'altro non ha sostanza. Sarebbe un eccessivo gesto "samaritano", occuparsi di qualcosa che non ha niente da dire.

Parli in particolare della danza?
In generale. Sono affezionato al festival Lavori in Pelle perché pur avendo i suoi tic, riserva sempre sorprese. È un importante luogo di passaggio, di incontro, di densità. Tutto il resto ti scivola addosso, e adesso non è proprio un rovello per me conoscere la scena attuale.

Il tuo distacco deriva da un percorso personale artistico o credi che qualcosa sia cambiato?
Diciamo che i disfacimenti ci sono sempre stati. C'è stato un fraintendimento sulla leggerezza con cui si va in scena. Da sempre si vedono spettacoli privi di consistenza. Direi comunque che molto dipende da me, dal confronto interno che ho all'interno di MK. Abbiamo finalmente preso atto della nostra estraneità, per cui da lì ho smesso di essere spettatore. Perché come spettatore sono disastroso, il teatro mi mette a disagio, la danza mi annoia..

E la musica?
I concerti sono la salvezza, soprattutto il circuito alternativo, che a Roma per fortuna non manca. Ho riscoperto anche un modo diverso di stare, di spostamento per lo spettatore. Dei concerti mi interessa l'impatto, l'energia e le qualità fisiche che vengono messe in gioco e che hanno a che fare in modo molto stretto con il riverbero, con l'eco.

Secondo te oggi i gruppi di danza guardano troppo alla "danza"?
Non credo. Molti gruppi ormai fanno lavori di interferenza, altri mantengono la ricerca dentro un filone coreografico, ma anche qui il mio interesse non è tanto per le scelte, quanto per il rigore con cui vengono portate avanti. Molti gruppi hanno questa ricchezza. In questo momento non ho il desiderio di indagare la scena intesa come la frontiera verso la quale ci si sposta.

Come si fa da artista a non avere una comunità e un panorama di riferimento, continuare a lavorare avendo così tanta diffidenza?
Si fa i conti con la solitudine. È sempre stato così, c'è un livello di scambio che io condivido, ma quello che produce uno spostamento non è quasi mai una riflessione su un "contesto generale" in cui ci muoviamo, ma deriva dal contesto interno. Anche con MK incontro delle altre persone e questo è già molto impegnativo, per lo stesso disagio che sento nel relazionarmi all'esterno.

Anche per questo un'attenzione particolare alle "incursioni", cioè ospitare, accogliere artisti di diversa provenienza?
L'incursione risponde al desiderio di rendere tutto fragile, di non appoggiare tutto a una chiusura strutturale. Questa forma rende il lavoro ancora possibile sia dal punto di vista fisico, umano, dell'incontro con performer esterni, sia strutturalmente con luoghi volubili, trasformabili. Va in questa direzione la scelta di non avere un repertorio, ma di ri-spalmare tutto ogni volta...

Da Addominale bianco a Zero Moses, dopo anni in cui lavoravate in situazioni performative anomale, con Real Madrid mettete un punto, con un lavoro che è uno " spettacolo"?
Un punto di partenza. È la prima volta che MK incontrano un gruppo strutturato e ben consolidato, come Esc e quindi lo spettacolo è un oggetto che sta nel mezzo. Non ho avuto un rapporto con loro in modo strumentale ma c'è stato un guardare da più punti di vista lo stesso oggetto, quindi abbiamo trovato cose compatibili e altre in opposizioni. È un'apertura. C'è un livello di formalizzazione che è diverso dagli attraversamenti di questi ultimi anni, ma forse questo zavorra una nuova impennata di disfacimenti a cui rimango vicino. Sono interessato agli "appuntamenti" spettacolari. Finora, a parte il caso di Bird watching, non ho mai affrontato la questione in maniera radicale, e credo serva proprio questo periodo di passaggio per riconsiderare certi aspetti del lavoro. Ho voluto farlo dando a questo spettacolo una dimensione da "concerto": partire da lì per capire come utilizzare il potere del suono per lavorare o riflettere sul disagio dell'evento.

In Real Madrid, ultima vostra creazione, iconograficamente c'è un serbatoio di immagini, allusioni, ammiccamenti che riportano a una sorta di denuncia del potere, in modo molto più forte che negli altri lavori? Perché?
Nel momento in cui scelgo di usare il linguaggio, la scrittura, sono già nel territorio del potere assoluto, del controllo. Da un lato c'è la ridefinizione didascalica della vibrazione, un atto attraverso cui devo passare per contrastarlo: quello che mi interessa è che il corpo esca da questa dimensione ottica e renda possibile un altro tipo di percezione vibrazionale del progetto artistico. Passare attraverso bagagli di immagini, anche molto banali, anche se nascondono stratificazioni culturali, più che a denunciare serve a rendere evidenti problematiche e costruire ritmicamente una comunicazione tenendo vive quelle problematiche, lasciando che il problema rimanga tale. Il problema di questo spettacolo è ancora più sorprendente: un uomo di colore che non danza, una donna a terra su un piano diverso dagli uomini hanno generato una serie di informazioni di decodifica del lavoro che confermano che c'è un sistema culturale intrappolato in connotazioni d'immagine per cui giocare con questi stereotipi in realtà acceca le possibilità di visione degli spettatori. Un braccio teso, uno spettacolo nazista. È la conferma che stiamo lavorando proprio con quel tipo di materia con cui mi sento a disagio, il corpo e l'ansia di traduzione del linguaggio coreografico, l'impossibilità di vederne una natura differente dalla strutturazione in "immagine più verbo", e quindi l'intromissione del potere, del controllo della lingua.

In questi ultimi anni c'è, o almeno si percepisce nel lavoro di molti gruppi, una vera e propria "ansia alfabetica", quasi un'esigenza di ridefinizione...
Siamo in situazioni e si percepiscono a tutti i livelli problematiche ineludibili, qualcosa ti fa sentire costretto all'interno di meccanismi di successione. Più che ansia di ridefinizione alfabetica dei contesti noto la forte presenza di sistemi di catalogazione, di elenco, che sono tentativi di ristrutturare le griglie che vengono appoggiate sul vissuto. Come gli sciamani che ridisegnavano sul corpo dei malati nuove linee di energia e stati alterati per permettere alle condizioni della materia di ricollocarsi all'interno del disegno anatomico del corpo. Credo ci sia il desiderio di spostare la griglia, o di sottolinearla per far emergere i buchi della rete.

Spesso è segno grafico, scrittura, la traccia di un suono che non si riesce pronunciare. C'è una necessità di autoreferenzialità, di ridefinire il proprio linguaggio per se stessi?
Al contrario, secondo me è un gesto di spesa nei confronti del "fuori". Nelle cose che percepisco e vedo sento un affacciarsi più consapevole, un desiderio di "radura", di apertura. Noi stessi siamo passati attraverso una fase "cartellonica", ora siamo dentro la didascalia, l'alfabeto. Nonostante sia un movimento analitico di studio interno, contiene in sé un altro processo che è assolutamente gettato all'esterno, una visione più ampia. In Real Madrid l'immaginario è totalmente riconoscibile.

Quale futuro prossimo quindi per le arti dal vivo? Vissuta come privazione, è una dimensione rimossa con cui fare i conti.
Dopo tutta questa problematicità ci sarà un riflusso che farà strozzare il foro di uscita delle tensioni, e dopo ci sarà la rovina... non so rispondere altrimenti.
C'è stata in questi anni una fortissima spinta a levare il sudario al cadavere, altrettanto chiaramente c'è adesso una spinta opposta nell'immettere in un flusso ben gestito e controllato, operativo, tutto questo materiale che gli artisti buttano fuori, e che problematizza il rapporto con il pubblico, che è stato chiamato ad assumere una posizione differente in seguito ai passaggi più sostanziali della ricerca coreografica. Adesso sembra che la scena della danza abbia la capacità di tenere incandescenti i problemi, metterli in luce, ma avverto un'organizzazione di questo tipo di urgenza, una sistematizzazione anche di maniera da parte della risposta organizzativa, critica, operativa della circuitazione, i contesti in cui viene ridefinita, come nelle linee guida che determinano i festival. Mi sembra di riconoscere una sorta di sordina su quest'urgenza. Automaticamente immagino che questa compressione determinerà un nuovo livello di emergenza successiva a questa. Per forza di cose si arriverà di nuovo a toccare il problema del teatro, dello spettacolo. Stiamo surfeggiando su quest'onda, aspettiamo il prossimo scoglio.

Alcuni dicono che il futuro sarà una realtà frastagliata di piccole comunità sempre più radicali e settarie, altri dicono che molti si inseriranno nel "sistema", per sopravvivere. La comunità teatrale si muove: tende alla famiglia, alla setta, o alla trasformazione totale o cos'altro?
Dal punto di vista degli artisti questa spada di Damocle è chiaramente visibile, nessuno ha voglia di costruire la fortezza, definire le reti per punti poi uniti dalla linea più diretta e semplice possibile. Credo ci sia una voglia di "radura". Le condizioni che generano i lavori, dal punto di vista urbano e politico sono sempre più anguste, per pressioni fisiche e architettoniche. C'è bisogno di grandi spianate, di apertura d'orizzonte, di vedere più gente possibile da qui al punto di fuga.
È anche vero dall'altra parte che il lavoro è fatto in estrema solitudine e quello che lo genera, lo spinge, lo crea non riesce ad essere il collante per formare una comunità. Lo vedo con chiarezza, da coreografo e da spettatore.

Guidi un laboratorio all' interno di un festival. Un festival su cosa dovrebbe puntare?
Prendiamo ad esempio la Biennale di Venezia diretta da Romeo Castellucci: ha una strategia chiara nelle sue linee guida. Un'azione di questo genere tiene viva la sostanza. Un festival dovrebbe fare questo senza dare definizioni didattiche. Credo debba apparecchiare il più possibile l'evidenza. Una volta che l'evidenza è ben apparecchiata, è potenza. Lì ci sono tutte le ambivalenze. Se un festival riesce a fare questo e a non schermare attraverso sistemi di compiacimento culturale, tentativi censori e controllo, ma riesce sfrondare ad aprire queste evidenze, corrisponde alla mia aspettativa di artista e spettatore.

Un festival concepito come un'opera, che abbia necessità creative proprie e riprenda in quest'ottica anche spettacoli meno recenti, svincolato dalla necessità mondana della "prima"?
Non ha senso fare i conti con la cronologia interna a processi di creazione che cercano in continuazione di negarla. È impensabile che non si abbiano strategie di fronte al sistema, sofisticato, capace di determinare a monte i processi creativi. Credo che i lavori debbano contenere in sé anche le risposte rispetto ai contenitori e ai luoghi in cui vengono esposti. È impensabile oggi lavorare solo sui contenuti o poggiare una creazione artistica soltanto sulla trasmissione di un'idea. Quando un festival ricalca mimeticamente il desiderio che ha quando commissiona dei lavori, che questi abbiano unidirezionalità, univocità di idee, perde quel tipo di capacità di allargarsi, di allagarsi nel reale. È quello che si chiede alla comunità quando deve incontrare gli artisti, o quando gli artisti devono incontrare la comunità. Un tempo presente carico di problematiche, nonché di presagi, di fraintendimenti.

Quale è il tuo rapporto con la situazione di laboratorio, come nel caso di Radura a Lavori in Pelle?
Il laboratorio non ha assolutamente nessun tipo di impostazione didattica. Organizzo le cose perché ci sia una trasmissione, un atto di generosità estrema nei confronti di chi incontri, ma faccio in modo che non ci sia un fraintendimento rispetto alla trasmissione di un sapere. Si tratta, come per un festival ideale, di apparecchiare il contenitore perché l'incontro diventi nel presente un atto reale, e il laboratorio non sia relegato a una progettualità che richiederebbe un altro tipo di pensiero. Io porto nel laboratorio la riflessione creativa che sta attraversando il gruppo con cui lavoro. Espongo e metto in gioco cose di cui non controllo fino in fondo lo sviluppo, lavoro su problemi, di cui non conosco soluzione, quindi metodologicamente faccio in modo che il laboratorio sia anzitutto un imparare l'incontro a tutti i livelli, io lo imparo ogni volta dalle persone che vedo, e viceversa. Che sia chiaro che non c'è alcun esercizio di potere da parte mia nei confronti di chi agisce quello spazio insieme a me. L'altro tipo di trasmissione richiederebbe durate e tempi e processi che nel lavoro permanente sarebbe molto meglio gestito. In questo senso il nucleo di lavoro di MK rimane aperto. I laboratori sono molto faticosi, come è faticoso l'incontro con l'altro senza protezione, ma sono sempre nutrienti.

Chi partecipa si aspetta di apprendere una tecnica?
Quelli che interpretano il laboratorio in questo modo sono sempre di meno, ho affilato gli strumenti per evitare quel tipo di fraintendimento. Collocare la propria danza in un ambito laboratoriale provoca subito il crollo della necessità. Ora fin dall'inizio è chiaro che il lavoro si appoggia all'esterno, fuori da me e da loro, nello spazio che condividiamo.

È un'idea ormai sedimentata anche in chi costruisce la propria formazione attraverso i laboratori?
C'è un'esperienza che si accumula nel tempo. Un trasmissione. Non credo che ci sia qualcuno che viene al laboratorio e si aspetta di imparare una sequenza, ma, anche fosse, attraverso il suono che invade lo spazio, attraverso l'incontro, tante difficoltà sono state smussate. Non mi sono mai trovato di fronte a un'ostilità. Adesso la sequenza sta tornando nel processo di scambio in modo interessante: dal punto di vista metodologico rappresenta l'estrema limitazione, risveglia la necessità di capire quanto sia mostruoso il limite che sta anche nell'improvvisazione. Oggi si può attraversare questa modalità senza fraintendimenti.


di Rodolfo Sacchettini , Valentina Bertolino
 

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Crisalide
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Rock indipendente italiano e internazionale