INTERVISTE > Residenza e resistenza: il futuro delle arti performative per Nanou
Altre Velocità tenta di scavare nel panorama dei gruppi italiani giovani di oggi. Alla luce del sole o in ciò che è nascosto. Vi pongo una domanda brutale: che succede a un gruppo della vostra età che desideri mostrare il proprio lavoro?
La formula che più spesso ci viene proposta è quella della vetrina a rimborso spese. Il problema principale, al termine di ogni vetrina, è che si fatica a trovare qualcuno disposto ad investire sulle compagnie giovani. I giovani non attirano né garantiscono pubblico, dunque c'è un interesse tarpato a priori.
Stiamo tentando di fare rinascere una sorta di "circuito off", quello che ha permesso a molti gruppi come MK, Kinkaleri (ma anche Teatrino Clandestino o Fanny & Alexander, per esempio) di emergere e che ora è seriamente minacciato.
Alcuni dei gruppi che citi, prima di emergere e vedere riconosciuto il proprio lavoro, sono passati per sommovimenti di auto-organizzazione che hanno creato dei piccoli "scossoni" per tentare di scalfire la situazione. Pensi che sia una via replicabile anche a quindici anni di distanza o sono ormai mutati i tempi?
Sì, direi che siamo in una situazione diversa. I gruppi "90" sono riusciti a mettersi insieme e a creare spazi nel mercato purtroppo solo temporanei. Come dimostra la storia recente di molti gruppi, la breccia nel sistema operata in quegli anni oggi è diventata totale chiusura.
Quello che oggi ci viene chiesto è l'abbandono delle singole identità per fondare consorzi di associazioni. Non è una soluzione che mi convince del tutto, soprattutto per eventuali spartizioni dei finanziamenti. Si finirebbe in una guerra tra poveri. Delegare ai consorzi questioni complesse come produzione, circuitazione, residenze sarebbe davvero complesso e poco produttivo. Nella situazione odierna c'è poco interesse per l'arte e la cultura. Si fa, parafrasando Artaud, un'arte "alimentaristica": quello che non ti fa mangiare è da scartare.
Se l'arte che non fa guadagnare viene inesorabilmente relegata ai confini del sistema, possono però rimanere situazioni già di per sé di confine, ma che fanno di questa frattalità una risorsa. Dei luoghi dai quali ripartire per ripensare a un senso per le arti performative. Relativamente alla vostra situazione mi viene da pensare alla formule delle residenze, offerte non a caso da "isole felici" come CanGo, L'Arboreto, Lavori in Pelle...
Sicuramente è una strada percorribile e fruttuosa, anche se per un discorso di disorganizzazione tipicamente italiano, le "residenze" non sono mai retribuite. In Germania, Francia, Inghilterra chi trascorre periodi di residenza lavora presso delle strutture che lo ospitano e percepiscono un contributo economico per il loro lavoro. In Italia, anche chi si prende in carico di offrire luoghi di "resistenza", non ha i fondi per sostenere economicamente i partecipanti. È già un lusso, al giorno d'oggi, disporre di uno spazio e di un impianto tecnico... ma quando finisce la residenza si deve tornare a casa e pagare l'affitto!
A livello artistico, in ogni caso, si tratta di occasioni veramente proficue. Qui a Lavori in Pelle abbiamo potuto presentare un lavoro all'interno dello stesso spazio in cui si sono svolte due settimane di prove.
Sappiamo che a gennaio 2005 hai organizzato a Ravenna Aksè, un progetto di incontro di cinque giorni fra compagnie del territorio nazionale. Dopo un serrato confronto al chiuso, avete effettuato due aperture al pubblico. Ci vuoi spiegare, in breve, in cosa è consistita quest'esperienza? Ci sono prospettive per gli sviluppi futuri del progetto?
Aksè è un progetto che crede nella volontà delle persone di lavorare insieme e confrontarsi. Nel primo azzardato tentativo abbiamo scommesso sulla capacità di incontro reciproco di diversi linguaggi eterogenei. Ci sono state molte incognite, forse troppe, come ogni progetto che parte con molto entusiasmo, ma vogliamo fortemente dare seguito ad Aksè. Una possibile formula di lavoro potrebbe vedere la condivisione degli spazi "di vita quotidiana" (i pranzi, le cene etc) senza per forza mettere le persone nello stesso luogo di lavoro. Un po' come un caffè letterario: ci si incontra e si discute del lavoro proprio e altrui, ma poi si torna a casa e ognuno prosegue da solo per la sua strada. Stiamo cercando persone che possano usufruire di questa estemporanea "cittadella dell'arte". La sfida sarà trovare non solo qualcuno che ci ospiti, ma anche disposto a sostenere economicamente il tutto.
Se avessimo la facoltà di vedere avanti venti o trent'anni, come ti immagini il futuro del teatro? Avremo ancora bisogno delle arti performative o sarà un' epoca in cui potremo comodamente farne a meno?
Penso che l'emozione che la presenza reale di un corpo umano riesce a comunicare sia un bisogno fondamentale dell'uomo, dunque credo che non si disperderà. La forma che assumerà non sono in grado di prevederla. Probabilmente diventerà una questione sempre più d'elite. Un po' come un barolo invecchiato: buonissimo ma inaccessibile ai più. Non si vuole capire che l'arte, pur non essendo strettamente connessa con la fame, rimane un bisogno viscerale.
Sono d'accordo con la lettera che Romeo Castellucci ha scritto per l'ultimo convegno di Mondaino: è un momento storico in cui il teatro deve chiudersi in sala e ripensare profondamente un proprio senso di esistenza. Cosa che ha già fatto nel passato e che rifarà periodicamente nel futuro. Noi ci siamo precisamente capitati in mezzo.
(si inserisce nella conversazione Roberto Rettura, fonico-musicista di Gruppo Nanou, nda):
Vorrei aggiungere una precisazione che sposta un po' il mio punto di vista. A differenza di Marco, io credo che con il proliferare di tante forme di sperimentazione fra trent'anni avremo finalmente più chiaro cosa è e cosa non è teatro. Ci sono ancora tante cose, al giorno d'oggi, che sono fatte a teatro ma verrebbero sicuramente meglio se fossero al cinema. Penso che fra trent'anni ci sarà più chiarezza in merito.
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