Nel complesso e multisfaccettato panorama teatrale di Buenos Aires, che secondo una ricerca di un quotidiano locale è la città con più sale teatrali al mondo, non è compito agevole individuare tratti comuni all’interno della produzione drammaturgica degli ultimi anni. Proliferano le compagnie giovani, i registi, le rassegne e, di conseguenza, anche le nuove scritture per il teatro. Se poi si utilizza il concetto di “testo teatrale” nella sua accezione allargata, peraltro la unica che permetta una approssimazione non escludente nell’impressionante fertilità cittadina, ci rendiamo conto che le scritture cha abitano gli spazi indipendenti raggiungono un’eterogeneità altissima: creazioni collettive, scritture sceniche “registiche”, drammaturgie dell’attore ecc…oltre alla concezione “tradizionale” di testo scritto appositamente per il teatro. E i nuovi autori, com’è prassi consolidata specialmente nelle ultime generazioni, usano portare in scena personalmente i propri testi, assumendo dunque un doppio ruolo.
In questa “opulenza” fuori dal comune, dove ogni teatrante trova il proprio spazio per andare in scena e soprattutto riempie le sale anche per quattro mesi consecutivi, coesistono stili di scrittura tra loro diversissimi. Fra i tanti, un particolare stilema attraversa molti testi nati negli ultimi quindici anni: la frammentarietà e a tratti la lacunosità della comunicazione e della parola. Le opere di autori come Rafael Spregelburd, Javier Daulte, Daniel Veronese, Federico Leon (solo per citare alcuni riconosciuti esempi che hanno segnato la scrittura per la scena nel periodo del post-dittatura) sembrano non avere nessuna verità preconfezionata da trasmettere allo spettatore, che deve divincolarsi in un percorso individuale di decrittazione di storie allusive, ambigue, enigmatiche, sospese. Echi di episodi accaduti in un passato irricostruibile che continua a sconvolgere il presente (Veronese, Leon), pastiche scenici che impediscono la formazione di qualsiasi storia credibile e definita (Spregelburd) o bizzarri avvenimenti a mezza via fra Pulp e David Lynch con velati riferimenti all’attualità argentina (Daulte), permeano lo sviluppo drammatico. Si creano tanti mondi con leggi proprie, puramente autoreferenziali. Sta a chi guarda o legge, in maniera del tutto personale, individuare le zone in cui questi microsistemi paralleli e idiosincratici aiutano a gettare luce sulla complessità del mondo reale.
Il premio Rozenmacher per la nuova drammaturgia, riservato ai minori di 35 anni e con cadenza biennale, risulta un’ottima occasione per avvicinarsi alla produzione drammaturgica del Paese. Nato nel 1999, insieme a non molti altri è uno dei concorsi più autorevoli presenti oggi in Argentina e ha avuto il merito di scoprire alcuni autori successivamente consacrati da pubblico e critica. In questa sede ci limiteremo a una breve panoramica sulle ultime due edizioni del premio, limitatamente alle opere vincitrici. Nonostante l’estensione del territorio, queste punte emergenti pensiamo possano aiutarci nell’opera di avvicinamento a uno dei fermenti teatrali più interessanti dei nostri anni.
Nel 2003 sono stati assegnati solamente il primo e il secondo premio. Oltre ai vincitori non ci sono state segnalazioni.
Vapor (Vapore), scritta da Mariano Pensotti, mostra chiaramente i tratti sommariamente presentati poc’anzi. Tre strampalati personaggi sono al centro degli avvenimenti, ma non esiste una “storia” nel senso classico del termine. Ci sono brevi flash, reminescenze di un passato doloroso, sogni ormai andati alla deriva. Un ragazzo vive rinchiuso in casa con scorte di whisky. Esce solo quando è colto da momenti di sconforto: si introduce nella vita di malati terminali, finge di essere un vecchio conoscente e, come un Caronte benigno, passa con loro gli ultimi giorni di vita. Due fratelli, che non si parlano più da anni, ricordano simultaneamente i tempi in cui andavano al mare con la famiglia, spiando di nascosto una misteriosa ragazza che suonava la chitarra su una scogliera. Ma poi tornano a sfrecciare, solitari, nella proprie decappottabili. Siamo lontanissimi da qualsiasi ipotesi o speranza di riavvicinamento: «Non sopporto che qualcuno abbia i miei stessi ricordi e non sia infelice come me».Un uomo di mezza età, per dimenticare la morte contemporanea di tre sue ex amanti, vaga tutta la notte e finisce a letto con un ragazza. Per eccitarsi, la donna lo veste da cow boy: da allora non si è più tolto i vestiti che indossa. Ognuno di questi frammenti, sebbene i personaggi portino lo stesso appellativo dall’inizio alla fine («Il Cow Boy», «Giovane pallido» e «Donna»), è autosufficiente. Non c’è La fabula, ma tante microstorie giustapposte, unite da un profondo senso di disillusione e fallimento. Tutto è già stato tentato, lo scacco è giunto già troppe volte. Non resta che tornare compulsivamente al passato, ai sogni perduti, ai brevi momenti di felicità. Non a caso, la forma drammatica scelta da Pensotti, manca quasi completamente di dialoghi, e la stasi dell’azione è resa tramite i pensieri e vagheggiamenti mentali dei protagonisti, immersi in un cupo non-presente.
Forse più spintamente simbolica, producendo in questo caso una sensazione di didascalismo eccessivo, risulta Enseñanza Machè (L’insegnamento Machè) di Santiago Gobernori, vincitrice del secondo premio. Anche qui l’opera procede per frantumi: una festa di fine anno scolastico in un istituto elementare, una disordinata polifonia di voci dispersa tra insegnanti e alunni e una tormentata recita conclusiva, attesa maniacalmente dagli insegnanti. Solo che a mascherarsi per lo spettacolino sono i genitori, mentre i figli intonano canzonette con le quali vorrebbero cambiare il mondo, ricostruendo tutto da capo.
E giungiamo all’ultima edizione. Le opere sono state premiate all’interno del V Festival Internazionale conclusosi da una decina di giorni. Oltre ai due vincitori, altre quattro opere sono state segnalate e dunque pubblicate. Come rileva la giuria nella presentazione del volume che raccoglie i due testi, la moltitudine di scritti inviati registra una significativa novità rispetto alle ultime edizioni: il carattere più scopertamente «politico» delle drammaturgie. Posto che ogni creazione teatrale mostra legami profondi con la cultura e il contesto socio-politico in cui è nata, le due opere vincitrici risaltano nel mettere al centro, senza troppe mediazioni simboliche, l’argomento politico.
Pablo Iglesias, con El Baile del Pollito (Il passo del Pulcino) che ha vinto il secondo premio, immagina due malviventi in uno scantinato, nascosti da una misteriosa organizzazione internazionale pronta ad ucciderli. Con lo sviluppo dell’azione, si apprende che i due stanno tenendo in ostaggio un “pezzo grosso”, che oltretutto è sul punto di morire. Non si sa quasi nulla del loro passato. E gli esatti contorni della vicenda, fino al colpo di scena finale, rimarrano oscuri. C’è, però, una precisa atmosfera che si ricollega alle tragedie della storia argentina recente: uno dei due parla di torture come se le conoscesse per averle messe in pratica mentre l’altro fa di sfuggita riferimento alla guerra che nell’82, contendendo le Isole Malvine agli inglesi, costò la vita a tanti ragazzi giovani e male equipaggiati. In questo caso, in una cornice del tutto realistica per i giorni che stiamo vivendo, sono le storie personali dei protagonisti a rimanere incerte, volutamente abbozzate, sfuggenti. Vedasi l’ossessione morbosa per i Rolling Stones e il “Passo del pulcino” di Mick Jagger, che non smettono di cantare e ballicchiare pur tormentati dal freddo e dalla fame.
Princesa peronista (Principessa peronista) di Marcelo Pitrola si produce in un’intensa riflessione sull’eredità della figura politica che più ha segnato la storia del Paese, ma da un osservatorio assolutamente legato al presente. Nel bagno di un circolo peronista, nel quale si sta svolgendo una importante cena di lavoro, una prostituta “amica” di un deputato viene tenuta prigioniera dalla guardia del corpo. Vorrebbe partecipare, salutare gli ospiti, bersi un bicchierino con le mogli, le «tanto puttane». Ma non gli è permesso. Avrebbe tutto il diritto di entrare, sostiene: sua madre, ai tempi di Peron, era stata incoronata «regina del lavoro» (onorificenza con la quale veniva insignita un’operaia all’anno, nel contesto di rivalorizzazione della figura della donna lavoratrice, uno dei cavalli di battaglia di Juan Domingo e soprattutto della moglie Eva). Anche il deputato, la cui candidatura per il parlamento nazionale dipende dagli esiti della cena, viene di tanto in tanto a visitare la ragazza. Ma sono altri tempi: «Peron ormai non c’è più». E la cena si conclude con l’immagine della principessa peronista odierna, chiusa in un bagno con la disfatta di una rivoluzione a questo punto neanche più collettiva. In un’intervista uscita in questi giorni sul quotidiano Pagina 12, un candidato peronista per le imminenti elezioni politiche (23 ottobre 2005) dice di citare Peron «perché mi è utile per esprimere ciò che voglio dire». E anche nel testo di Pitrola emerge la stessa sensazione: una classe politica che non ha nulla a che fare con i nomi e i simboli a cui si riallaccia, profondamente corrotta e senza più nessuna presa sulla popolazione. Alla quale non resta che osservare gli intrighi dei potenti dal vetro insonorizzato di un maleodorante orinatoio.