Come avete deciso di partecipare al concorso e perché?
MARCO VALERIO AMICO: Un concorso esplicitamente pensato per la danza contemporanea in regione ci sembrava una buona opportunità, dato che all’epoca ci trovavamo in un periodo di scarsa visibilità. Inoltre la struttura a tappe offriva un confronto reale con la giuria, che potesse andare al di là della visione di un singolo lavoro finito come avviene di solito. Più in generale, credo sia sempre necessario far capire il valore della danza contemporanea, anche alle persone che non sono abituate a vederla, cosa che GD’A ha permesso mettendo in rete alcune strutture come il Teatro Comunale di Ferrara e Santarcangelo, fra le altre.
RHUENA BRACCI: Penso che intraprendere un percorso di un anno sia fondamentale per una giovane compagnia. Per molti si tratta del primo confronto con la realtà distributiva “reale” del mercato italiano, un confronto con operatori, critici, addetti ai lavori.
Uno dei mali del sistema italiano sta proprio nella classe di operatori, spesso troppo ansiosa nel voler proteggere un pubblico che si pensa non preparato, e quindi poco portata alla scommessa sul nuovo. Come vivete questa questione?
R.B: Si tratta di sapere accogliere le richieste degli operatori, i suggerimenti dei critici e degli addetti ai lavori senza mai farsi portare fuori dal progetto. Certo è una sfida, che però misura la crescita di un gruppo emergente.
M.V.A: Per quanto riguarda l’ultimo lavoro, Tracce verso il nulla, nella replica di Santarcangelo abbiamo portato in scena il materiale che sentivamo più pronto, ma non si tratta di voler accontentare l’operatore. Quando si mostra un work in progress, la scelta deve prediligere il materiale che presenta un minor grado di fragilità, proprio perché in una situazione pubblica si valuta prima di tutto il rendimento.
Ci sono vari bandi, alcuni luoghi che offrono residenze, una certa circuitazione. Segno di una rinnovata attenzione verso i gruppi emergenti o piuttosto la solita onda che molti cavalcano e poi abbandoneranno?
M.V.A: È un buon momento, che va però preso con diffidenza. Le realtà che sostengono il teatro emergente per vocazione si possono contare sulle dita di una mano. Le altre, invece, scelgono i giovani perché costano meno, perché con il ricatto della residenza possono costruire rassegne a basso costo, perché programmare gruppi emergenti fa recuperare finanziamenti. Io non credo che tutti i giovani debbano essere finanziati. Ma nemmeno mi sembra accettabile che alle compagnie ospitate in una residenza venga imposto di pagare le spese, di far vedere degli esiti o di debuttare nel festival senza prevedere nessun compenso.