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20/03/2018
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Ivrea Cinquanta – Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967 – 2017. Genova, 5-7 maggio


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Un teatro in mezzo ai campi: 8 aprile con le Ariette


24/03/2017
''La formazione del nuovo pubblico'': un convegno sabato 25 marzo ad Albenga


28/02/2017
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La cultura nell'economia italiana: il 13 gennaio un convegno a Bologna


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Impertinente Festival: il teatro di figura a Parma, dal 7 all'11 dicembre


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Infanzia e città a Pistoia, dal 24 settembre al 5 novembre 2016


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Dalla Cultura alla Scuola: ''Cosa abbiamo in Comune'', il 7 settembre a Bologna


31/08/2016
Electro Camp – International Platform for New Sounds and Dance, a Forte Marghera dal 7 all'11 settembre


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La "realtà" a teatro. Domande aperte all'ultima stagione hello
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Non professionisti tra animazione e arte relazionale
A ritmo crescente – in una crisi teatrale e culturale complessiva che investe non solo le questioni economico-organizzative, ma riguarda anche un impoverimento delle ricerche e delle forme – si avverte l’esigenza da parte di molto teatro, italiano e straniero, di coinvolgere direttamente sulla scena dei non professionisti. Non è certo una pratica nuova. Tutto lo scorso secolo è stato segnato da esperienze che, con modi ed esiti differenti, si sono poste il problema di lavorare con corpi non professionali: presenze spaesanti e a volte provenienti letteralmente da altri mondi. Lasciamo da parte il caso, un po’ differente, del teatro amatoriale, filodrammatico, dilettantesco e anche per un attimo le tante esperienze di “teatro popolare”, realizzato cioè “con e per il popolo”, di cui l’esperienza forse più interessante in Italia è quella del Teatro Povero di Monticchiello (Siena), ispirata un po’ al Teatro Popolare francese e che quest’anno ha festeggiato il quarantaseiesimo anno di vita. Ogni estate per un mese gli abitanti di Monticchiello mettono in scena un “autodramma” nella piazza del paese guidati dal regista Andrea Cresti: un momento molto serio, nella sua austerità e nel suo impegno, in cui si riflette su questioni fortemente connesse alla comunità, soprattutto legate alla vita dei campi (dalla mezzadria, all’abbandono delle campagne, fino all’esplodere del turismo e degli agriturismi…). Quest’anno (Palla avvelenata) nello specifico si è trattata la questione della crisi, dei prestiti, delle banche, tutto quanto filtrato da una novella di ispirazione boccacciana. È un tipo di lavoro che oggi colpisce forse ancor di più per la sua natura comunitaria, in controtendenza al disorientamento collettivo sulle possibili funzioni del teatro.
Lasciamo da parte anche il fenomeno più significativo degli ultimi decenni di apertura della scena a non professionisti, l’animazione teatrale, la cui parabola può dirsi per molti versi conclusa, almeno se intesa come movimento generale e diffuso e non come semplice “servizio” offerto al territorio, con la sopravvivenza radicale di singole esperienze o di piccoli gruppi. Dai bambini agli handicappati, dai giovani disadattati, ai malati di mente e ai detenuti il teatro è andato alla ricerca in maniera capillare di figure ai margini della società, là dove le differenze, le anomalie, il disagio si fanno più evidenti e la presenza di chi ne è portatore ha un peso specifico denso e particolare. Il teatro, come lente privilegiata per osservare e riflettere sulla società e sulle sue più complesse, marginali e sfumate identità, ha saputo nutrirsi di mondi inaspettati per inventare linguaggi capaci di erodere, almeno in certi casi, quel senso di recita televisiva che, come una colata di cemento, ricopre tanti palcoscenici italiani. I “teatri delle diversità” sono stati per molto tempo, e continuano in alcuni casi a essere, le strade più eclatanti per interrogarsi sul binomio, quanto mai discusso, di “teatro e realtà”. Certamente la retorica semplificata dei “contenuti”, i servizi ricreativi spacciati per pratiche artistiche hanno reso l’orizzonte molto più complicato e confuso. Ma hanno permesso almeno allo sguardo di farsi un po’ smaliziato, di non cadere facilmente nelle trappole delle buone intenzioni, o di non farsele bastare. Come sempre sono poche le esperienze davvero radicali, quelle che riescono a scardinare i vincoli del cliché producendo uno scarto reale sul versante dei linguaggi artistici.
Oltre all’animazione teatrale però, a partire dagli anni novanta, e oggi in maniera sempre più marcata, si sono diffusi in Europa e in Italia altri modi e altri atteggiamenti allo scopo di rendere partecipe e addirittura protagonista il pubblico: si parla solitamente di “arte relazionale”. Questa volta nessuna precisa distinzione sociale: a essere coinvolto è tutto il pubblico in quanto tale e le opere in questione vivono proprio del coinvolgimento degli spettatori e del loro agire e reagire a stimoli e a situazioni che vengono loro presentati. In Estetica relazionale Nicolas Bourriaud parla appunto di un’arte che viene giudicata in funzione delle relazioni interpersonali che raffigura, produce o suscita. Nello sviluppo ipertrofico delle nuove tecnologie, per effetto delle quali l’interazione e i rapporti interpersonali hanno subito profondi cambiamenti, l’arte relazionale vorrebbe svolgere una funzione di interstizio in cui si ricreano alternative di vita possibile. E così dalle arti visive al teatro l’idea di un’arte relazionale si propaga sempre di più, anche perché la performatività diffusa che invade la scena contemporanea permette di legittimare pure operazioni microscopiche, al limite dell’invisibile. A fronte di dispositivi interessanti, dove il pubblico partecipa a un gioco di ruolo che spesso si interroga sulle forme di democrazia e di convivenza civile, spesso l’arte relazionale crea piccole situazioni più simili a un parco giochi o a strane animazioni dal sapore concettuale per stimolare un dialogo o uno scambio tra gli spettatori. Questi nuovi tentativi (in Europa già molto diffusi, in Italia in forte aumento) cercano di porsi in chiave costruttiva, per funzionare da aggregatori sociali, per diffondere e rinsaldare un’idea comunitaria. Si nutrono di stimoli molto differenti: può essere una partecipazione alla Living Theatre orientata sui moduli della creatività e dell’espressività di massa, possono essere i dispositivi del mondo virtuale o di realtà aumentata, intrisi spesso di new age, possono essere giochi di ruolo o piccole riflessioni a sfondo economico, tra origine del capitalismo, finanza ed ecologia. Possono esserci interessanti esperimenti sul piano della memoria orale, sull’incontro e sul dialogo intergenerazionale, sull’archiviazione di esperienze. Spesso però molte operazioni rimangono a un livello di superficie e il divertimento di un attimo permette che un’ombra di relazione (o meglio di dialogo, di gesto, di qualunque interazione) – cioè la reazione dello spettatore – venga talmente imbellettata da risultare presto mistificata in qualcos’altro. A volte sembra di partecipare a esercizi di rianimazione per alienati. L’obiettivo è che gli spettatori si guardino, scambino due parole, si tengano per mano, come se un autismo diffuso e collettivo impedisse di uscire dalla propria bolla rendendo esotici i gesti e i comportamenti di un vivere normale. Messi sotto la lente di ingrandimento questi atteggiamenti esibiti come “umani” acquistano un carattere di straordinarietà, quasi provenissero da altri mondi. Suonano a volte come iniezioni di sentimentalismo o piacevolezze artificiali dove quello che si esibisce è il senso stesso del pudore. Senza entrare troppo nello specifico si può dire che spesso tra le intenzioni e gli esiti ci sia un abisso e che il teatro ne risulti un po’ mortificato, perché sembra aver perso fiducia in se stesso, nelle sue potenzialità, nelle sue qualità, declinando l’idea di partecipazione con una più facile e conveniente pratica di consumo.

Il “prossimo” del teatro: cittadini in scena
L’attuale periodo di crisi comincia a spostare l’asse di attenzione, i punti di appoggio consolidati e il centrale si confonde col periferico, i consueti ragionamenti sul rapporto tra teatro e realtà mutano di prospettiva. Allo stesso modo anche alcuni percorsi artistici vengono ad acquistare valori e sfumature differenti. A fronte di un apparente veloce cambiamento, i fenomeni che si producono sembrano spesso solo leggere varianti di quel che già c’era, salvo stupirci come cosa nuova, perché posti in una luce sempre diversa. Molte volte verrebbe da pensare che è solo questione di moda, solo questione di crisi. Ma c’è un problema reale sul punto di vista: da dove si guarda? Mettersi a pelo d’acqua e sorprendersi degli innumerevoli e rapidi insetti o rimanere bloccati a scrutare la palude, lasciandosi rintontire da un’umidità crescente, incapaci di distinguere quel che è fermo da quel che si muove davvero? La crisi della critica riguarda anche questo: scegliere un punto di vista, un paesaggio, un orizzonte al quale riferirsi.
Diciamo allora che di fronte a una carenza sempre maggiore di esperienze, all’essere risucchiato dentro le superfici delle fiction, una parte del teatro di questi ultimi tempi si interroga nuovamente sull’altro da sé, si chiede con ostinazione “chi sia il suo prossimo”. E lo fa a tratti in maniera disperata, rendendosi conto di star perdendo appigli, di star solo rincorrendo un contatto vero con il mondo circostante: a tratti brancola in modo disordinato, faticando a mettere a fuoco una via e appoggiandosi ai percorsi consolidati, oppure denunciando apertamente il paradosso della propria utopia.
Le risposte sono molteplici e diversificate, e certamente impossibili da ricondurre chiaramente a filoni definiti. Sbilanciandosi sui sommovimenti in atto e volendo individuare un qualche tipo di tendenza, si può dunque scorgere da più parti un’attenzione crescente degli artisti verso i non-professionisti: non più però verso persone che siano socialmente o fisicamente segnate in qualche modo o verso i rappresentanti di una marginalità sociale (detenuti, handicappati, malati di mente…). Negli ultimi decenni le ricerche hanno percorso in questo senso strade anche molto differenti, basti pensare alla potenza estetica dei lavori della Socìetas Raffaello Sanzio degli anni novanta nei quali si coinvolgevano anoressiche e laringotomizzati, obesi e senza braccia, o alla comunità stravagante riunita attorno a Pippo Delbono che, soprattutto nei suoi primi lavori però, veniva ulteriormente trasfigurata tramite spiazzanti composizioni coreografiche. Esempi opposti di artisti che provavano sulla scena, per la via dell’autenticità, dell’imprevedibilità o comunque della vita sorpresa in prossimità della morte, della sua anomalia o del suo mistero, a inventarsi un linguaggio che oltrepassasse le superfici della rappresentazione, risalendo alle origini dell’archetipo o alla fine dell’umano.
Molti artisti invece guardano in questo ultimissimo periodo, come altro da sé e come diretto interlocutore per dar vita al proprio processo artistico, al semplice “cittadino”. Si riferiscono cioè alla persona comune chiamata a giocare, almeno potenzialmente, un ruolo attivo nella comunità. Il nostro specchio è, in altre parole, una rivisitata forma di classe media: il vicino di casa, il collega di lavoro, nostro fratello, noi stessi dunque. We folk! titolava quest’anno il festival di Dro.
Le motivazioni sono davvero differenti, così come a volte opposti appaiono i risultati e gli obiettivi. Sicuramente la crisi attuale spinge a volgere uno sguardo diverso sulla classe media, sorpresa adesso nel suo sgretolamento; la piatta superficie sulla quale lo sguardo degli artisti rimbalzava generando visioni consolatorie o al contrario affondava facendo emergere le parti oscure e patologiche, le banalità del male e l’atrocità di una borghesia piccola piccola, pare adesso mostrare pieghe e incrinature nuove, tese a rivelarne aspetti “positivi”. Capita a volte di guardare alle persone comuni con una certa dose di sorpresa, come se la normalità fosse un tratto esotico, come se, e in effetti è accaduto davvero, per anni ci fosse stato un distacco enorme tra gli orizzonti artistici e la gente. Come se da parte di alcuni artisti ci fosse adesso la necessità di ascoltare e di testimoniare, restituendo questo tipo di relazione con forme nuove, distanti però dalla narrazione e dai moduli canonici della rappresentazione. La questione è scivolosissima e a rischio di retorica, ma se affrontata da artisti veri potrebbe aprire pure strade inaspettate. In quest’ultima estate molti resoconti critici hanno affiancato tante esperienze proprio seguendo la chiave della partecipazione e del coinvolgimento, così come suggerito dalle stesse rassegne e dai festival. Ma in realtà spesso i sentieri che sono stati affiancati partono da luoghi molto distanti e a volte i modi e i fini sono quelli di poetiche e politiche anche opposte.
Per questo per provare a capire meglio il fenomeno è necessario allargare l’orizzonte, guardare al clima più generale europeo e alla scena internazionale. I maggiori festival europei di solito indicano delle linee, delle direzioni abbastanza precise, cogliendo necessità reali o alimentando semplicemente mode e gusti. Le due cose naturalmente vanno spesso assieme per cui le questioni sono sempre intrecciate e molto complicate. Ma volendo in maniera sintetica e approssimativa ripercorrere alcuni fenomeni che hanno contraddistinto gli ultimi anni della scena teatrale contemporanea, utili a questo discorso, si può dire che i primi anni del duemila sono stati segnati dall’ingresso prepotente di una dimensione performativa nella scena del teatro e della danza. Si è avviato un processo di destrutturazione di codici e di modalità rappresentative. L’ossessione predominante è stata di smontare la scena, affrontarne la grammatica, trasformare gli attori in performer e interrogarsi in modo pervasivo sul tempo e sullo spazio. Questa sorta di processo “in negativo” ha prodotto infine una scena che oggi può dirsi esausta, perché svuotata ormai di tutto: dell’aspetto artigianale, dell’artificio, di elementi rappresentativi. Rimane spesso soltanto l’ombra di una relazione tra scena e pubblico, vissuta tramite i canali di un’ironia un po’ cerebrale che adesso, in una fase di forti manierismi, dimentica addirittura i processi di sottrazione che sono stati compiuti, trasformando molte cose in tic, automatismi, piccole nevrosi.
In risposta a una sorta di svuotamento generale alla fine degli anni zero molti festival internazionali e molti gruppi hanno rivendicato un ritorno alla “realtà”. La necessità cioè di riappropriarsi di un peso specifico e di trovare i linguaggi adatti per tradurre sulla scena il mondo circostante. I tentativi in corso sono tanti e senza appoggiarsi a vere ideologie si avvalgono ancora dei mezzi legati alla performance e all’arte visiva. Si può dire che vi sono esperienze che tramite meccanismi duchampiani e di ready-made provano a portare pezzi di mondo dentro la scena nell’utopia di toccare qualcosa di autentico (da qui tutto il fenomeno crescente di teatro-documentario, teatro-conferenza o lecture…) ed esperienze che al contrario pigiano il pedale su un ibrido tra realtà e finzione avvalendosi di un immaginario prevalentemente pop. A questo tipo di istanza di realtà in maniera non sempre chiara molti gruppi hanno rivendicato il compito di incidere in qualche modo sul presente. Affrontare la realtà ha significato, almeno in superficie, porsi la domanda sul “se” e sul “come” si possono cambiare le cose. Le rivoluzioni arabe, seppur per breve tempo, e i movimenti Occupy Wall Street e Indignados hanno spinto alcuni gruppi a improvvisare o ad accentuare prese di posizioni più politiche, anche se di fatto non è stata partorita nessuna estetica veramente significativa, e il confine tra persuasione e retorica si è fatto assai labile. Il passo successivo, dopo un’accensione da (artisti) “indignati”, è stato di guardare non a un orizzonte lontano, ma al mondo circostante, quello più vicino e prossimo: la propria città, il proprio quartiere, la propria casa. E siamo qui adesso tornati a chiedere al teatro di riflettere e di rimettere in discussione le modalità del vivere comune. In questo guado una delle forme artistiche utilizzate per agganciarsi a un contesto sempre più sfuggente e complesso appare proprio il coinvolgimento di non professionisti. Questa volta gente comune, senza nessun elemento sociale di differenziazione, la piccola-media borghesia, guardata con la speranza e la fiducia di rintracciarci dentro elementi positivi di resistenza, di autonomia, di risveglio.

Esempi e domande aperte dell’ultima stagione
In questo macro-clima sarebbe sbagliato appiattire i percorsi artistici a un medesimo tema, perché le differenze qualitative sono enormi, le storie completamente differenti e le mode senz’altro maggioritarie. Ad esempio ci sono lavori di artisti come quello di Virgilio Sieni (festival di Castiglioncello e di Santarcangelo) che ormai da diversi anni con l’Accademia sull’arte del gesto ricerca la bellezza proprio nei gesti dei non professionisti, costruendo coreografie sempre di grande fascino: fin dal suo ingresso ciò che si presenta come “comune e normale” viene  trasfigurato e restituito ad una grazia tutta verticale, nell’ottica del sogno o della poesia. In questo caso parlare di “cittadino” è parzialmente fuori luogo perché l’intento di Sieni non è tanto “civile”, piuttosto guarda all’idea rousseauiana di compassione. Si considera prima di tutto la persona come individuo (più citoyen che cittadino) e si guarda al racconto che la memoria dei suoi gesti imprime nel corpo. Si fa appello più al genere, all’età, a generali dati d’identità che non a precise connotazioni sociali. Non si tratta cioè di pensare a un’arte che possa aggregare e rinforzare microcomunità di persone; questo spesso accade, ma pur essendo un elemento importante, non è l’obiettivo principale, rappresenta una ricaduta secondaria. Il lavoro estetico è qui il traino di ogni cosa, e se il fine è quello di inseguire una forma, accogliere il mistero, spalancare un attimo di bellezza, allora i corpi dei non professionisti sono i varchi perfetti per accedere ad una sensazione di commovente prossimità e di profondo estraniamento.
Al Festival di Santarcangelo – al quale ho partecipato alla direzione artistica con Silvia Bottiroli e Cristina Ventrucci – il progetto dello statunitense Richard Maxwell apriva un’ulteriore finestra. Trenta cittadini di Santarcangelo sono stati invitati a rispondere, in pochi minuti, a due domande: in cosa credi? cosa è importante per te? Tramite una tecnica di proiezioni illusionistica in uso nell’ottocento – il fantasma di Pepper – prendevano corpo sul palcoscenico le presenze dei cittadini registrati che, simili a ologrammi, rispondevano, alle due domande. Lo spettacolo (in forma dunque di video), dal titolo Ads (abbreviazione per advertisement, annuncio pubblicitario), partiva dal desiderio di dare spazio e voce al cittadino comune per ascoltare il suo “spot” più intimo, la sua breve professione di fede, qualunque essa fosse. Una sorta di fiducia ad ampio raggio, un voler offrire un ritratto democratico di una società il più possibile variegata, sorpresa e immortalata in un momento di impegno e convinzione. L’esito non poteva che essere ambiguo perché a domande così spiazzanti, nella loro voluta semplicità, a domande schematicamente capitali e quasi impossibili nella loro forma naif, le risposte non di rado scivolavano nella confessione-autoanalisi con impennate di assurdità e stranezze, rendendo la successione degli interventi-ritratti-epifanie più orientata alle stravaganze e al grottesco. Eppure, nonostante un’orizzontalità a tratti ripetitiva a tratti caotica, il dispositivo adottato non cancellava mai un lampo di autentica e umana vitalità dal volto e dai corpi di queste persone, restituendo una sorta di generica credibilità, un’ombra di dignità, a quel groviglio fantasmatico di affermazioni. Ma l’effetto ancor più strano è che questa specie di sfilata civile di buoni sentimenti e di ferme convinzioni diventava a tratti quasi un reperto archeologico. Sembrava di esser proiettati nel futuro e di vedere l’attuale, il presente, come già storicizzato, conservato sotto vetro quasi che anche noi, superati dalla nostra stessa visione, potessimo contemplare a ritroso gli effetti della conclusione di un’epoca, la nostra, con le sue credenze e i suoi costumi. L’elemento interessante era proprio questa discrepanza: da un lato una sorta di affermazione civile e fiduciosa, un inno alla comunità nel suo pubblico confidarsi, dall’altro una radiografia funerea, anamnesi postuma di una passata civiltà. Difficile dire fino a che punto l’opera abbia realizzato le intenzioni del regista Maxwell, fatto sta che anche la presenza del pubblico ogni sera cambiava la percezione dello spettacolo in maniera netta e sorprendente. Accolta da grandi risate di riconoscimento o benevola derisione nell’affetto e in una certa solidarietà, la processione di cittadini sembrava una parata di freaks scelti appositamente per le loro stranezze; la sera in cui invece quei corpi disincarnati e le loro parole erano fruiti con freddezza e addirittura con un certo imbarazzo sembrava di sfogliare un album fotografico di fantasmi.
I casi in cui si coinvolgono persone comuni sono davvero in continuo aumento anche perché una domanda reale e una necessità sincera, se posta in maniera forte attirano velocemente anche molte mode e maniere, calamitando pure atteggiamenti superficiali e di poco interesse. La diffusione di una filosofia del “normale”, declinata anche su formule di un’inquietante esaltazione del medio e del quotidiano si avverte ormai da più parti, al di là della scena teatrale: una vera e propria estetica a cui guardano anche le grandi case di moda che dopo aver assecondato vari eccessi sembrano adesso tutte innamorate dell’icona dell’uomo comune: un uomo comune che assorbe in sé gli eccessi, ora alla portata di tutti, perché a nessuno si nega un riflettore sotto cui muoversi o una telecamera dalla quale essere spiati. Non è facile aver la meglio su trent’anni di televisione e dieci anni di Grande Fratello, non è facile camminare sul crinale dell’immaginario mantenendo lucidità, senza che le microstorie, i microsentimenti, i pudori e le vergogne siano velocemente centrifugate nel vortice del nostro immaginario da reality e riversate all’esterno con una dose aggiuntiva di narcisismo ed esibizionismo e per di più sotto la spinta più o meno subliminale delle eterodirezioni dei social network o dei motori di ricerca. Proprio adesso che pare di scorgere uno spartiacque epocale, proprio ora che la serie del Grande Fratello e dei tanti reality televisivi sembra in declino, e forse è conclusa una fase storica della televisione, da tanti lati si guarda a quel gorgo di finzione, non tanto per analizzare un fenomeno in parte trapassato, ma forse per contemplare la sua drammatica trasformazione: la fuoruscita dilagante di tanti modelli e immagini dai pixel del piccolo schermo per invadere la cosiddetta realtà. O per meglio dire per scorgere proprio nel quotidiano e nelle vite comuni la presenza massiccia di una magmatica osmosi col gioco della finzione, non più riconoscibile, e comunque non facilmente districabile, perché i confini tra vero e falso là si mescolano continuamente e la realtà si manifesta finalmente col suo volto nuovo, patinato e inconfondibile: onnicomprensivo, infinito reality.

Mercuzio non vuole morire della Compagnia della Fortezza: dall’arte alla cultura
L’ultimo lavoro di Armando Punzo della Compagnia della Fortezza, Mercuzio non vuole morire, può essere utile per aggiungere un ulteriore punto di vista. Punzo è un regista, tra i più radicali e ostinati in circolazione, che da più di vent’anni ha scelto come “altro da sé” – protagonisti cioè del proprio teatro e anche primi spettatori – i detenuti del carcere di Volterra.
Esito di un percorso biennale andato in scena appunto nel carcere e, a seguire, nella piazza centrale di Volterra, questa versione di Punzo del Romeo e Giulietta di Shakespeare utilizza come chiave d’accesso Mercuzio. Come sempre accade negli spettacoli di Punzo la drammaturgia si compone di una miriade di citazioni che si intrecciano tra loro. Si cita Calvino e la sua lezione sulla Leggerezza di cui Mercuzio è paladino, si cita Don Chisciotte e soprattutto Majakovskij. Non si cita invece il riferimento più diretto, quello a cui si guarda con insistenza e cioè Carmelo Bene, e in particolare il suo Romeo e Giulietta. Storia di Shakespeare secondo Carmelo Bene, nel quale Mercuzio cresce a dismisura e rimane agonizzante in scena.
Nello spettacolo di Punzo, recuperando in parte l’idea di Bene, Mercuzio, simbolo della poesia e dell’arte, è il vero protagonista: la sua morte in Shakespeare dà inizio alla tragedia dei due amanti e prelude alla loro morte e in un certo senso a quella della città, la bella Verona. Fermare il destino irreversibile che porta alla tragedia collettiva, alla perdita di futuro della comunità significa riscrivere la storia del Bardo, dando più spazio e vita al poeta, a Mercuzio e con lui al coro dei Cittadini, stabilendo così una sorta di alleanza esplicita tra “teatro” e “popolo”.
Il progetto di quest’anno, anticipato da una martellante campagna comunicativa e pubblicitaria, si è sviluppato come di consueto all’interno del carcere, ma è proseguito poi nel centro di Volterra dove varie decine di persone si sono riunite per dar vita ad alcune grandi azioni di gruppo. Ogni “spett-attore” poteva prender parte alla costruzione di queste scene: portando una valigia o un libro, e partecipando così a scene di massa e corali come «le mani insanguinate» (un gruppo di persone che si aggirano per le strade di Volterra come in una manifestazione alzando una mano tinta di rosso); «i duelli» (vengono forniti dei fioretti per simulare il duello tra Mercuzio e Tebaldo: «Mercuzio viene ucciso in un duello con Tebaldo. Il duello diventa il duello con noi stessi», come da foglio di sala); «la giornata della partenza» (ogni spettatore si porta da casa una valigia con dentro una «lacrima versata per qualcosa che non amiamo del mondo in cui viviamo, per qualcosa che ci ha feriti a morte», rappresentando così «una parte di Mercuzio che non accetta il suo destino di morte»)…
Prima di queste azioni, prima che lo spettatore diventasse protagonista della piazza, nel cortile della Fortezza si erano svolte alcune scene dal Romeo e Giulietta con il regista Armando Punzo che, dopo alcuni anni di assoluta centralità attoriale, lasciava un po’ più di spazio agli attori detenuti. Era stato in occasione del Pinocchio. Lo spettacolo della Ragione del 2007, che il regista, l’ideatore, il “domatore” Punzo aveva cominciato a esporsi in prima persona come attore. L’essere attore – la forte messa in gioco personale e il rispecchiarsi in una precisa condizione esistenziale – serviva a ribadire forse che la Compagnia della Fortezza era in assoluto una radicale esperienza artistica, da non confondersi con le tante pur rispettabili iniziative di teatro e carcere. Negli ultimi anni la riproposizione del medesimo modulo spettacolare rendeva la presenza attoriale di Punzo del tutto centrale, mentre in questo ultimo lavoro si torna a una dimensione leggermente più corale e la presenza degli attori detenuti emerge con più evidenza nell’evocazione di scene e personaggi shakesperiani vestiti con abiti stravaganti che richiamano i costumi di Fernand Léger e le avanguardie storiche. La costruzione artigianale della scena (i costumi, le quinte, gli oggetti…) è certamente uno degli elementi più affascinanti, perché trasmette un senso di inaspettata meraviglia e di stupore, senza la benché minima necessità di effetti speciali. Ma c’è qualcosa di irrisolto, a partire dalla disposizione del pubblico. Gli spettatori si trovano all’interno del cortile: non c’è tribuna, non ci sono sedie. Possono dunque muoversi liberamente, anche se la grande affluenza di pubblico e la ristrettezza dello spazio rendono di fatto molto difficile ogni spostamento. Teoricamente gli spettatori sono lasciati liberi di avvicinarsi o allontanarsi, di fruire l’evento più come una performance che non come uno spettacolo, ma questo in realtà si offre in maniera frontale ed evoca un qualcosa a metà tra la parata e la messa in scena. Solo nella scena finale gli spettatori sono invitati ad avvicinarsi al centro e a urlare in coro «Mercuzio non vuole morire» e «non voglio morire», sventolando dei libri d’arte che vengono poco prima distribuiti. È questa scena finale (che apre poi a tutta la parte esterna, nella piazza e in alcune strade di Volterra) a sollevare qualche perplessità. Al di là della commozione che la conclusione trasmette dal momento che sono anche i detenuti, dentro il loro carcere, a urlare la loro voglia di vita, al di là dunque di questo filtro intrinseco alla situazione, la perplessità nasce dalla necessità spasmodica di Mercuzio, dentro e fuori dal carcere, di ottenere la partecipazione e il consenso degli spettatori. È un Mercuzio che inneggia alla poesia e alla sua originalità, facendosi forza dei versi del giovane Majakovskij. Ma è allo stesso tempo un Mercuzio agit-prop; un Mercuzio che chiede apertamente il sostegno dei cittadini, chiede a ognuno di partecipare fisicamente alle scene di massa, di diventare attivo all’interno dello spettacolo, di portarsi da casa un libro (quello che più ama) e di innalzarlo in cielo come gesto di protesta e gesto d’amore. Dalla scena finale, piena di pathos, alle scene collettive in Piazza dei Priori, Mercuzio, inizialmente voce di poeta, pare trasformarsi in un generico emblema di cultura (di massa?). Lo slittamento, a prima vista minimo, è invece gigantesco.
In Piazza dei Priori la scena a cui si assiste è a tratti commovente, perché le decine di spettatori accorsi a partecipare alle azioni provano a distinguersi dalle centinaia di turisti che, ignari di tutto, attraversano la piazza. La lotta è impari, anche perché le scene che si susseguono sono rivolte alla realizzazione di un documentario o di un film (a regia dello stesso Punzo e a partire da questa esperienza) più che a costruire un vero spettacolo di massa. Anche per questo il numero di macchine fotografiche, cellulari, telecamere presenti in piazza, tra tecnici, spettatori e turisti (così come all’interno del carcere) è davvero impressionante e a dir poco ossessivo. Il voler far esplodere a livello comunicativo un evento, che comunque rimane per pochi, è ragione comprensibile, ma non sufficiente, perché il rischio è quello di snaturare un contesto, mortificando la visione. L’impressione è però che la ricaduta performativa delle azioni di massa sia troppo fragile per domare un contesto turistico certamente complesso e difficile. Anche perché l’impressione è che sia in corso, sotto gli occhi di tutti, una sorta di sostituzione, o fraintendimento, più o meno inconsapevole, tra arte e cultura. Si lascia che la ferocia e la lucidità dello sguardo poetico vengano interpretate come legittimità della cultura a esistere. L’arte viene digerita e tradotta in una qualità civile della comunità. È la cultura che non deve morire! Ma quale cultura? La cultura “bene comune”, come l’aria o l’acqua? La “cultura” che è parola ameba – come direbbe Ivan Illic – parola di plastica che comprende ogni cosa, tutto e il suo contrario? Costruendo una sorta di happening che non riesce a diventare davvero corrosivo, si trasmette un’idea generica di democrazia culturale che, in teoria, vedrebbe nell’arte lo strumento per l’emancipazione dell’individuo. Ma rimangono troppe ambiguità e la performatività è così diffusa che si scivola piuttosto nello “spettacolo della democrazia” e la partecipazione per paradosso pare quasi una sorta di rivendicazione del diritto di consumare e di produrre cultura.
Il clima ludico e festoso crea, in questo caso, una sorta di euforica normalizzazione generale, cosa quanto mai stridente e inconsueta per una delle esperienze più radicali e significative della scena teatrale di oggi. L’impressione più forte di questo progetto è che per tentare di uscire nel fuori si sia, in un certo senso, dovuto normalizzare anche il dentro (fuori e dentro dal carcere, ma anche da Shakespeare, dall’idea stessa di ispirazione e di poesia), per rendere compatibili due differenti linguaggi e modi percettivi, come due vasi comunicanti che alla fine non comunicano più. Per cui tornando anche dentro le mura del carcere gli attori-detenuti sembrano portatori di un’alterità fantastica, un po’ felliniana, un po’ meravigliosamente carroliana, ma perdono improvvisamente di ferocia, del senso di paura, di diversità. Salvo ovviamente alcuni momenti di grande intensità, questo Mercuzio pare in agonia, lottando per le ragioni della poesia da una parte, ma cedendo di fatto alle tentazioni dell’affetto e della vicinanza del pubblico dall’altra. Proprio in questo senso vale la pena di recuperare il monologo finale del Mercuzio di Bene, antecedente di questo di Punzo, che suona irriducibile nella sua ferocia, e per nulla muscolare né affermativo: «Non piangere. Sono una bestia e ridi! Ridi! Non si muore più. Voglio mettermi a urlare per le strade? Voglio diventare matto sul serio per la rabbia, sai! Abbiate dunque sfiducia in me, lavoratori! Abbiate dunque sfiducia in me! Bisogna essere assolutamente moderni. La sfiducia conforta, guida, risana. Avvicinatevi donne, vecchie e bambini che vi recito ancora. Poveri, poveri lavoratori, non pregate per me, vi diffido! Mi basta soltanto la vostra sfiducia e morirò felice e pensiamo a me… Ecco sono queste le cose che mi fanno rimpiangere il mondo. (…) O patria mia, o patria mia, o patria mia (…)».

Articolo apparso su Lo Straniero N. 184, ottobre 2012


di Rodolfo Sacchettini


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