Il Premio Scenario, per chi è agli inizi, è un'occasione imprescindibile per farsi conoscere da un numero cospicuo di addetti ai lavori, dunque per cominciare a fare del teatro la propria professione. Allo stesso tempo, il sistema teatrale al quale ci si sta affacciando renderà difficile una crescita vera, fatta eccezione per quelle realtà in grado di adattarsi alle esigenze di un mercato chiuso. Per discutere delle opere dell'ultima Generazione Scenario, che hanno debuttato nel mese di dicembre al Teatro Franco Parenti, ci sembra importante partire da queste due semplici constatazioni, anche per chiederci se tali premesse stiano influenzando la produzione teatrale dei gruppi emergenti, di cui Scenario ha il merito di essere un prezioso specchio. Si tratta di una domanda che dovremmo rivolgere in maniera diretta anche a chi ha accompagnato le compagnie nei due anni di Premio: alle Commissioni di zona, composte dai maggiori teatri che lavorano sull'innovazione in Italia, all'Osservatorio critico che seleziona gli artisti ammessi in finale e infine alla giuria che decreta i vincitori. Vale la pena infatti di spendere ulteriori parole su uno dei concetti che stanno alla base del premio, quello relativo ai «nuovi linguaggi». Cosa è nuovo? E cosa si sta facendo per studiare, difendere, sostenere il nuovo? Sarebbe infatti importante tornare a interrogarsi collettivamente sul concetto di novità, in relazione alle arti della scena. Perché, a un mese di distanza dalla visione, la sensazione è che questa Generazione Scenario non sia del tutto propensa a pensare il “nuovo”, ma si orienti piuttosto verso un consolidamento di modi già teatralmente diffusi. Non che venga solo del male, da tale constatazione, soprattutto pensando a come spesso si scambi l'idea stessa di novità con un'etichetta merceologica o distributiva. Eppure, Scenario resta uno dei pochi osservatori in cui domandarsi perché sia così faticosa l'emersione di estetiche che spingano i confini delle arti sceniche oltre l'ampiamente diffuso; grazie a Scenario, in altre parole, è ancora possibile domandarsi come mai sia difficile incontrare opere che sperimentino la creazione di “mondi” linguisticamente autonomi rispetto a ciò che li ha preceduti. Pur sapendo che l'idea stessa di nuovo si basa spesso su rielaborazioni del “vecchio” (lo rimarca la fondatrice di Scenario Cristina Valenti citando il Manifesto di Pasolini in Generazioni del nuovo, Titivillus, 2010), ci si chiede però se la ormai circoscritta “tradizione del nuovo” non si stia attestando, almeno ultimamente, su stili e forme garantiti, cristallizzando la sua stessa spinta a ricercare. E tale domanda, desunta da Scenario, può valere per la totalità del cosiddetto “teatro di ricerca” nato negli ultimi anni.
Restiamo certi di un dato, che in qualche misura corrobora la sensazione di "scarto" che qui tentiamo di discutere: con tutti i debiti manifesti o indiretti di ogni opera prima, e indagando i “semi” che preannunciano la formazione di estetiche autonome, possiamo affermare che almeno fino al 2009 il Premio ci aveva consegnato gruppi che assomigliavano soprattutto a se stessi, al di là dei singoli esiti spettacolari: dagli Anagoor ai Babilonia Teatri passando per pathosformel, solo per citarne alcuni. Vediamo dunque nel dettaglio i quattro spettacoli della "Generazione" 2013, e proviamo a tirare qualche filo al termine dell'articolo.
Oltre la narrazione: W (prova di resistenza) di Beatrice Baruffini
Una scena occupata dall'attrice e da una spianata di mattoni forati, e il racconto della prova di resistenza degli abitanti di Parma, quando nel 1922 respinsero i fascisti di Balbo. Giocando sull'identità metaforica fra mattone e personaggio, la Baruffini costruisce un pezzo teatrale di raffinata fattura, in cui ogni pietra diventa alla bisogna corpo umano, barricata, casa illuminata con i buchi a rappresentare finestre. I cittadini resistenti “indossano” un fazzoletto rosso, mentre i fascisti sono segnati con il colore nero. Baruffini racconta in modo piano, come fosse la voce narrante di un documentario storico, e nello stesso tempo assembla figure spostando i mattoni, convincendoci gradualmente della loro immaginaria identità di personaggi. Come il bambino Gino, che rimane turbato dai maltrattamenti subiti dal padre, o come il procedere dello scontro in gruppo in cui si afferma che «Dobbiamo essere refrattari con chi ci dice che siamo materiale di poco valore».
La pregevole scrittura di scena, che la giuria accosta a Claudia Dias e Gulya Molnàr (si dovrebbe certamente citare anche Marta Cuscunà), potrebbe certamente giovarsi di un cambio di passo ritmico, in modo da far corrispondere all'emozione dell'intreccio la partecipazione della recitazione, per adattare le maglie di una ricercata cifra narrativa al pathos della storia che si presenta.
Beatrice Baruffini, ph di Tomaso Mario Bolis
M.E.D.E.A. Big Oil: grottesco quotidiano
Un non distante afflato civile, volto a divulgare storie scarsamente note, percorre M.E.D.E.A. Big Oil del Collettivo InternoEnki, diretto da Terry Paternoster. Lo spettacolo vincitore del premio Scenario per Ustica si apre con la rappresentazione simbolica delle chiacchiere di paese: in fila in proscenio nove fra attori e attrici urlano come fossero al mercato, mimando l'atto della cucina della conserva di pomodori e scambiandosi frammenti di dialoghi. La condanna dell'emigrazione, l'arrivo di un ingegnere che promette lavoro, la minaccia rivolta a una terra ricca di risorse naturali, i rapporti famigliari stantii: un certo barocchismo di invenzioni sceniche colora una recitazione declinata in tonalità forti, quasi “tipiche” da sud Italia, anche nella scelta di utilizzare il dialetto lucano. Così, nella foga del declamato s'imprime un rallentamento di dialoghi e azioni in slow motion, alla coralità della folla si frappongono il canto di un corifeo o le pose solitarie da promesse politiche dell'ingegnere, mentre alle sue spalle l'intero paese è bloccato in grotteschi tableaux vivants. Sottotraccia c'è la storia di una comunità sfruttata, metafora del più grande Paese italiano, dove saremmo tutti pronti a farci tradire dal Giasone/petroliere/politico di turno, dove Maria fa rima con «Amara terra mia, io me ne vado via».
Collettivo InternoEnki, foto di Tomaso Mario Bolis
Trenofermo a-Katzelmacher: oggetti teatrali non identificati
La proliferazione virata al grottesco, specchio dell'immaginario malato dei nostri anni. Questa pare essere la cifra del lavoro del gruppo con base a Roma nO (Dance First. Thkink Later). C'è un refrain che ricorre in una scena ripetuta più volte, con i dieci attori in fila scossi da tremiti mentre si ode lo sferragliare di un treno; c'è un testo drammaturgico preciso, Katzelmacher di Rainer Werner Fassbinder, con la sua acuta lente su un quotidiano che si vorrebbe vestire di normalità, invece perversamente razzista se osservato da vicino; infine c'è una scrittura di scena consapevolmente venata da un tremendismo dai tratti paradigmatici, ironico nelle sue spinte iperboliche. Ragazzi e ragazze usciti da un Romanzo Criminale neomelodico bivaccano ai tavolini di un bar: al centro un ombrellone Sammontana, sul fondo una lamiera a fare da parete, sul lato un freezer per i gelati; cantano in fila My Heart Will Go On in quella che parrebbe essere una festa paesana di mezza estate; vanno a zonzo al luna park e in fila di due mimano l'ottovolante, gli autoscontri, il tiro al bersaglio. La trama procede e lo straniero Katzelmacher viene lentamente accolto in una comunità chiusa, fino al punto da intessere relazioni troppo strette che conducono a un inevitabile epilogo violento. Uno scanzonato balletto ritmico fa da controscena alle violenze di un ragazzo su una donna che si scopre accidentalmente incinta, con tanto di sedie che volano; una marcia funebre colora una cerimonia nuziale con improponibili vestiti di gala, mentre la punizione sanguinaria finale è condita con l'inno multirazziale degli Almamegretta, Athena Was Black.
Trenofermo a-Katzelmacher è un oggetto teatrale non identificato, con potenzialità che sarebbe bello vedere espresse nel futuro lavoro del gruppo, qualora gli artefici decidessero con maggiore decisione da che parte stare: se da quella di un teatro di stati emotivi, replicando talune iperboli emozionali di una certa Emma Dante o di Ricci/Forte o dell'ultimo Delbono (prima regola: scrittura fisica che manifesti contrasti sottolineata da musiche commoventi preferibilmente didascaliche), o se invece preferiscano sprofondare nelle pieghe di un teatro disperato, poco o affatto consolatorio, che riesca a far ridere pur prendendosi sul serio (pensiamo ad alcuni personaggi di Enzo Moscato o alle visioni di Alfonso Santagata, accostamenti suggeriti dall'uso dei "nO" di una lingua meticcia, in cui ogni personaggio parla una derivazione particolare di un impasto proveniente dal sud Italia). La direzione attuale tenta un delicato equilibrio fra una strada di prevedibile consenso e una più sofferente, meno garantita.
nO (Dance First. Think Later), foto di Flavio Boretti
Mio figlio era come un padre per me: corrosione e consolazione
Il tedio domenicale di ferrettiana memoria apre Mio figlio era come un padre per me, dei vincitori del Premio Scenario Marta e Diego Dalla Via. Con gli echi delle gesta di Pietro Maso e altri emuli, nello spettacolo scorrono i dialoghi fra due personaggi che hanno in animo di uccidersi, ma con l'intento di far morire i genitori dal dispiacere. Vogliono così riappropriarsi di uno spazio schiacciato dall'azienda di famiglia del padre, che ha costruito un piccolo impero di costruzioni in legno nell'operoso Nordest, e dalla presenza ingombrante della madre. Il dialogo si snoda fra una sorella ossessionata dal dimagrimento e un fratello che pare uscito da Twin Peaks, abito elegante e occhialetti tondi, variazione in salsa veneta del lynchano psichiatra pazzo Lawrence Jacoby ma con l'aggiunta di un umorismo marxiano, nel senso dei fratelli Marx. I due giacciono seduti a un tavolo scartando ossessivamente dei Boeri, sollevano il tavolo svelando la scritta “Fame” (che sia in italiano o in inglese spetta a noi decidere), discutono su come mettere in opera il loro piano fino a scoprire che il padre indebitato si è suicidato gettandosi sotto un treno, annullando i loro propositi. Da «Equitalia a Trenitalia» è la chiosa a mo' di freddura del fratello, a cui faranno eco considerazioni impregnate da filosofia da bar su una generazione inerte, preda di facili entusiasmi («l'immotivata fiducia nel futuro» che genera lo spritz), per la quale bastano una decina di casse d'acqua di plastica e un asse di legno per fare teatro. Lo spostamento semantico dal piano del racconto a quello degli attori è solo in apparenza forzato, perché qui sembra puntare la riflessione del duo vicentino. Evitando il pantano direttamente autobiografico di attori che si raccontano, i fratelli confezionano due personaggi a loro prossimi, e non solo geograficamente, uno dei pochi modi per continuare a gettare uno sguardo disincantato ma non indolente sul mondo che ci circonda. Con loro, dunque, noi spettatori scopriamo quanto sia labile il confine fra desideri frustrati e propositi criminali, e restiamo con una domanda: la corrosione del riso, l'acidità del sarcasmo che prende di mira certi luoghi comuni sui trentenni di oggi («Siamo vittime o privilegiati? Siamo vittime del privilegio») bastano per produrre una reazione? O, al contrario, inducono una consolazione?
Mio figlio era come un padre per me
Progetti per il futuro: sconfinare per spezzare lo stallo
In un momento di stallo generale, in cui l'affanno pare essere la sensazione più forte che accomuna molte delle arti, la risposta che deriva da questo Premio Scenario (e quindi dal teatro italiano under trenta?) va nella direzione di una conservazione o di un consolidamento. Talune esperienze nate in anni recenti, considerabili da chi osserva come punti di riferimento acquisiti e quindi “da superare”, stanno probabilmente ancora influenzando l'immaginario di chi si affaccia sulle scene oggi. Certi stilemi, certi modi di concepire l'attore la recitazione la regia si stanno probabilmente consolidando seriamente solo ora, in coincidenza di una loro capillare diffusione, rendendo di fatto molto complicata l'emersione di qualcosa che rappresenti una differenza. In Italia è difficilissimo circuitare, soprattutto per i gruppi trentenni (anche quelli premiati da Scenario nelle passate edizioni, con qualche eccezione come i già citati Babilonia Teatri). Allora quali sono gli orizzonti, i riferimenti, i nutrimenti di chi oggi sta muovendo i suoi primi passi, se non quelle esperienze nate da poco più di un decennio e che negli ultimi tempi hanno acquisito una centralità distributiva? Non si tratta di chiedere ai gruppi giovani, e al panorama che li circonda e li sostiene, di invertire la massima che Nicola Chiaromonte riporta nei suoi Scritti sul teatro citando Strawinsky: «Il vero lavoro dell'artista è di riattivare vecchie navi. Egli può dire di nuovo, a suo modo, solo ciò che è stato detto». Il punto, a nostro modo di vedere, sta nel domandarsi come fare in modo che questa piccola area riesca a mettere il naso fuori, per provare a sparigliare gli orizzonti e i nutrimenti pur avendo presente il lavoro di fratelli e sorelle maggiori della scena. Alla riconoscibiltà dei filoni linguistici, insomma, oggi è forse bene preferire gli sconfinamenti, magari eccedenti o indebiti, ma probabilmente in grado di restituire un po' di aria (e di futuro) alla cappa che avvertiamo. Ovviamente, questo vale anche per chi scrive.