In questi giorni si è riaccesa la discussione sul nuovo decreto FUS (#lafortezzavuota). Cogliamo l'occasione per ripubblicare il pezzo "Teatro Italia 2015" di Rodolfo Sacchettini, uscito lo scorso luglio sulla rivista "Lo straniero" (n. 181), diretta da Goffredo Fofi. L'articolo è stato scritto mentre venivano resi noti i primi risultati e ancora non era chiara la mappa conclusiva, ma la riflessione di fondo ci sembra continui a restare valida.
Il 2015 è l’anno della tanto attesa “riforma” ministeriale del teatro. Cambia tutto o non cambia nulla? Ne ha già scritto, in modo dettagliato e condivisibile, Massimiliano Civica anche su questa rivista, qualche mese fa (v. "Lo straniero" n. 178, aprile 2015, NdR). Vale la pena ricordare che il decreto ministeriale ha alcuni elementi positivi (le domande sono triennali e non più annuali, sono introdotte regole più precise per i direttori dei teatri e i direttori/registi, è nata la categoria di “centro di produzione”, sicuramente quella potenzialmente più feconda, sembra cresciuta l’attenzione, seppure leggermente, ai più giovani e alle residenze…) in un’architettura generale che fa acqua da tutte le parti. Il teatro entra in un tunnel e non si sa bene come ne uscirà. Verrebbe da dire, in modo gattopardesco, che tutto cambierà, perché nulla di fatto cambi realmente, ma non è così. Ci sono elementi molto forti nella riforma che inevitabilmente incideranno sul sistema generale sia a livello economico organizzativo, sia sul piano prettamente artistico.
In queste ultime settimane, ora che inizia ad apparire più chiara la nuova mappa teatrale, sono comparsi tanti commenti e interventi fortemente critici. Quando tutti i nuovi riconoscimenti saranno ufficiali e quando si capirà bene la distribuzione delle risorse sarà possibile fare una prima vera valutazione. E ci saranno sicuramente alcune buone notizie, piccoli e grandi segnali in controtendenza e di cambiamento, soprattutto per il serio lavoro di una commissione ben qualificata, composta da esperti conoscitori del mondo teatrale. Ma il problema vero è all’origine, nella struttura stessa della nuova regolamentazione e gli effetti maggiori, e peggiori, si vedranno con il passare dei mesi, quando tutto quanto sarà messo “a regime”. Nell’era berlusconiana “chiudere i rubinetti” è stata un’espressione ricorrente, utilizzata in modo liberatorio per accusare una cultura “assistita e inutile”. Oggi le parole sono cambiate e le risorse, malgrado le grandi difficoltà, sono state confermate. Il problema vero è che sono cambiate le regole ed è diminuito il margine di manovra e di costruzione progettuale. Aumentati gli obblighi e cresciuti i parametri quantitativi da rispettare, in un periodo comune di de-responsabilizzazione, la prospettiva non può che essere opaca: chi si prenderà qualche rischio culturale, chi riuscirà a non limitarsi all’organizzazione dell’esistente? I vincoli reali potrebbero diventare alibi perfetti per un’ulteriore conservazione dei poteri più forti.
In modo sintetico si può dire che questa normativa influisce sul sistema generale alzando i parametri quantitativi, selezionando e favorendo gli accorpamenti. A dire il vero è una tendenza nazionale che riguarda l’intero sistema pubblico (dalle scuole agli ospedali, dalle poste alle ferrovie…) e che sul teatro ha un effetto deleterio, poiché la vitalità teatrale è cresciuta e si è alimentata nel corso dei secoli non certo per ragioni geopolitiche. Imporre un ordine verticistico e centralizzato al paese delle cento province e dei mille campanili è andare “contro natura”. In epoca di declino e di crisi economica appare ovvio tendere a qualche accorpamento, ma creare dei Frankenstein teatrali e alzare pesantemente tutti i parametri quantitativi, stimolando ulteriormente l’offerta spettacolare (chiaramente già in eccesso) rischia di avere effetti micidiali.
Più un teatro è grande, più è costretto a mostrare i muscoli. Per i “piccoli” rimangono poche speranze. In un periodo di crisi i grandi teatri che mostrano i muscoli somigliano a vecchi bodybuilder, affannati a gonfiarsi, per nascondere le fiacchezze dei tempi. Bisogna essere tutti grandi, ma con meno risorse. Perciò le sale devono essere sempre piene di pubblico, con numeri da capogiro. Il botteghino torna a essere strutturalmente fondamentale, e la qualità dovrà adattarsi rapidamente alle grandi platee. Altro punto cruciale è l’idea che le produzioni dei teatri (in particolare i “nuovi” Teatri Nazionali, ma in qualche modo ha effetti su tutti quanti) debbano nascere e vivere sostanzialmente nello stesso territorio. Si guarda agli esempi tedeschi con spettacoli dalle lunghe teniture (mettere in scena ad esempio i Sei personaggi per un mese di fila, come se Roma, Milano, Napoli, Bologna, Firenze, Venezia, Torino fossero delle tante Berlino in grado di attirare un pubblico così numeroso…). Il rapporto tra teatro e territorio si fa dunque strettissimo e di fatto si posa una pietra tombale su un’altra delle caratteristiche tipiche (seppur in forte crisi per il sistema distributivo) del teatro italiano: il “nomadismo” delle compagnie. Sono loro in questa riforma la parte più “debole” e più colpita. Soprattutto le compagnie indipendenti di piccola e media grandezza che non hanno spazi, stagioni, risorse, vip “acchiappa pubblico” da offrire in cambio dei loro spettacoli. Le compagnie vengono colpite duramente tre volte: si alzano un po’ i parametri quantitativi e allo stesso tempo si crea un sistema dove viene totalmente disincentivata l’ospitalità e il “giro”. In terzo luogo, poiché il sistema punta tutto sulla “produzione” e quasi nulla sulla distribuzione, le compagnie potranno innescare meccanismi coproduttivi e produttivi virtuosi solo nei casi in cui vi siano condizioni particolarmente favorevoli e sensibili. I grandi teatri hanno l’obbligo di creare delle proprie produzioni, ragion per cui si andranno a smembrare le compagnie teatrali oppure si finirà col rianimare il cosiddetto “teatro di regia”, da molti anni avviato a un declino che pareva irreversibile.
Va detto però che la riforma non giunge all’improvviso, piuttosto appare come il frutto inevitabile degli ultimi anni di chiusura miope e di immobilismo: Teatri Stabili incapaci di rilanciare discorsi culturali e sempre più staccati dal loro territorio di riferimento, circuiti teatrali che hanno promosso quasi sempre spettacoli di medio o basso livello, Teatri Stabili di Innovazione per anni monopolizzati da direttori-registi che hanno lasciato margini di manovra strettissimi ad altre proposte che non riguardassero loro stessi, festival costretti a rispondere a tante, troppe domande, compagnie arroccate nel piccolo territorio conquistato e non sempre in grado di rimettersi in discussione…
In conclusione bisogna aggiungere che il peso della burocrazia, le grandi incognite, i criteri quantitativi fanno venir voglia, soprattutto ai gruppi più giovani (ma non solo), di lasciar perdere, di non provarci neanche. Fuggire per evadere, ma fuggire anche per seguire strade marginali, catacombali… Tra i pochissimi spiragli oggi percepibili forse si può dire che chi si troverà a confrontarsi con il “sistema” più strutturato dovrà riflettere sul concetto di “produzione” che oggi torna ad essere centrale e che può aprire inedite strade progettuali che vanno al di là della realizzazione del singolo spettacolo. La “produzione” è una sfida sia per chi opera nei teatri, sia per i gruppi teatrali, è un dialogo da ricostruire e da reinventare e può riservare sorprese. Ma sarà una minoranza strettissima perché implica da entrambi le parti la volontà di assumersi dei rischi, la fatica di costruire qualcosa di diverso. Chi si pone fuori dal sistema rischia di sprofondare nell’amatorialità (e lavorare senza risorse) e dovrà porsi una domanda radicale sulla propria sopravvivenza e sulla propria funzione culturale, reinventando una relazione con il pubblico, che è andata perduta, o almeno, che va considerata perduta per poter ricominciare; un “fuori-legge” potrebbe ripartire dai piccolissimi, dai bambini, per ritrovare una necessità reale e iniziare a ricostruire il futuro; un “fuori-legge” potrebbe rivendicare con forza il primato del “corpo” e del “qui e ora” del teatro (come punti di nuovo centrali e specifici nell’era del digitale) e pensare il teatro da “vagabondo di professione” per esplorare paesi, storie e città, per assurdo abitare letteralmente “strade” diverse.
Questa situazione disastrata presenta un solo elemento positivo, ma molto importante. In maniera disordinata comincia a riemergere, nella jungla dei narcisismi e delle chiusure, una semplice domanda: perché il teatro? Non a caso da più parti si parla di “eternità” del teatro, per fuggire evidentemente alla paura della sua morte. Pensare all’eternità è prender coscienza di un momento di impressionante cambiamento sociale e del quotidiano, nel quale le nuove tecnologie paiono aver abolito o reso desuete molte questioni importanti della vita umana, che sono le fondamenta anche dell’espressione teatrale. Se fossimo sotto la lente di un entomologo del domani in effetti non potrebbe che apparire residuale il comportamento di gruppi di esseri umani che alla stessa ora si riuniscono nello stesso luogo, sedendosi gli uni accanto agli altri, facendo silenzio per una o due ore e prestando attenzione tutti quanti a quello che viene detto e mostrato sulla scena, dal vivo. Fino a soli pochi anni fa si diceva che a teatro non si può “cambiare canale”, che la ricezione è differente e richiede una predisposizione all’ascolto totalmente diversa dalla tv. Pare preistoria. Oggi, se pensato in parallelo alle velocità e simultaneità delle nuove tecnologie, andare a teatro potrebbe essere associato a qualche rito arcaico caduto in disgrazia. Eppure nei primi anni Ottanta si era disposti ad aspettare anche dieci minuti perché venisse caricato un videogioco sul computer… certe fiammate della tecnologia e certe percezioni temporali vanno sapute anche ridimensionare nei loro effetti collaterali. Comunque sia, è proprio questa diversità del teatro che oggi appare anacronistica e nuovamente interessante, e non ha a che fare propriamente con uno stile, ma con una profondità e uno scavo estetici ed etici. Ed è una diversità che sembra essere osservata sempre più con “invidia” dalle nuove tecnologie, tanto che le logiche immersive recuperano proprio moltissimi elementi di teatralità.
C’è del vero nel sostenere un’eternità del teatro, ma solo se riferita alle sue altezze e alle sue cadute. Oggi la “nuova” domanda, quella a cui tutti, e in particolare i più giovani, iniziano o dovranno iniziare a rispondere, sta tornando ad essere la più antica, la più necessaria di tutte: perché il teatro? e subito dopo per chi? e come?