Il Premio Scenario è uno dei pochi luoghi teatrali italiani in grado di porsi come “contesto”. In un contesto sono ammessi gli errori, le sfocature, perché lo scorrere del tempo lascia intravedere la possibilità di una crescita. In un contesto è possibile discutere, esercitare il dissenso come parte necessaria di un percorso di costruzione, perché una “replica” è l'episodio di un processo, la manifestazione parziale di un arco di domande che intessono una produzione. Un contesto invita a ragionamenti che allarghino lo sguardo, ci sprona a intendere il teatro come “occasione” per discutere il presente, per comprenderlo, per metterlo alla prova e così metterci alla prova. Sarà per questo che Il Premio Scenario è diventato negli anni una delle pochissime realtà di cui fidarsi, una di quelle aggregazioni di cui il teatro italiano non può davvero fare a meno, con i suoi due anni di raccolta e ricerca su base regionale, le tappe intermedie di presentazione dei lavori, la finale in un luogo cruciale della ricerca scenica italiana (Santarcangelo) e la conclusiva circuitazione della Generazione Scenario (i vincitori del Premio Scenario e Scenario per Ustica con altri due lavori segnalati).
Alla prova dei debutti, si è tentati ogni volta di individuare fili rossi in grado di legare le quattro opere, viste il 28 e 29 novembre 2015 presso il teatro Litta a Milano. Anche quest'anno la tentazione di guardare a Scenario come occasione per rispondere alla domanda «Dove va il teatro italiano emergente» è forte e in parte legittimata dal consueto rigoroso lavoro di selezione, ma è anche corroborata dalle motivazioni della giuria (si parla di maternità e famiglia, di attenzione alle dinamiche sociali, di un sistema teatrale la cui difficoltà si riverbera sulle opere). I quattro spettacoli visti partono dal privato, dalla biografia, ma tentano di non rinunciare a una presa di parola sul mondo circostante, sulle sue strutture, mettendone in luce soprattutto le faglie. Sono proposte dove il teatro tenta di porsi come occasione per fare vedere meglio, per dibattere di problemi e contraddizioni, senza voltare lo sguardo, a volte cedendo alla tentazione di intrattenere. Viene da chiedersi, dunque, che cosa debba fare il teatro oggi e quali siano le nostre aspettative, domande che grazie a Scenario riusciamo nuovamente a porci.
Pisci 'e paranza di Mario De Masi descrive un nucleo di relazioni fra amicizia e famiglia ai margini della società, mentre al centro di Homologia di Dispensa Barzotti c'è la solitudine di una vita che combatte contro il “finale”; Caroline Baglioni, vincitrice di Scenario per Ustica, con Gianni prende le mosse da frammenti di una biografia di uno zio solitario, trasfigurando il ricordo di famiglia in narrazione collettiva; infine la vincitrice del Premio Scenario Angela Dematté, in Mad in Europe, persegue l'arduo e rarissimo tentativo di riflettere sul destino europeo che ci accomuna. Alla base c'è una felice invenzione letteraria che scandaglia i pensieri di una donna in bilico fra emarginazione e follia.
Oggi, però, forse più che in altri anni pensiamo valga la pena guardare agli esiti di Scenario 2015 come domande in atto da porre ai linguaggi teatrali conosciuti. Ci muoviamo nel deserto, da questa consapevolezza occorre ripartire. Cosa, fra le opere incontrate, ci spinge a immaginare un teatro diverso, inedito? Quali forme lasciano intravedere la possibilità di rifare il teatro, tentando di riportarlo un po' meno ai margini?
Pisci 'e paranza, ph Gloria Soverini
Pisci 'e paranza si svolge per strada, dove tutto accade, in una nuttata che sembra non potere mai passare. C'è un terzetto composto da una sorella e due fratelli, uno dei quali macilento, un po' toccato. Giunge una coppia a turbare gli equilibri del marciapiede, non si capisce cosa cerchino, lei è incinta, forse qualcosa di rimosso sta per emergere. Tutto è nel dialogo, non ci sono scenografie, tutto procede grazie a un'alchimia relazionale che a tratti si staglia su uno sfondo nero che inghiotte. Il fratello “dominante” scatena corse e maschilistiche sorsate di bottiglie di vino, lanciate nello spazio come palle di rugby. Un occhio di bue azzurro squarcia la notte; i personaggi rivendicano la scelta di vivere «nella merda», nei meandri di un'autenticità che si vuole diversa, distante da una massa di persone che finge di essere quello che non è. Pur cedendo il passo a soluzioni sceniche che dispiegano un orizzonte drammaturgico statico, che si nega a possibili approfondimenti (e che potrebbe in quel caso riportare ad altre storie di emarginazione, fra Rucello e Moscato), a tratti quella verità si affaccia. Nei toni degli attori e delle attrici, nel dialogo che maschera conflitti, nell'apparente naturalezza dell'inflessione campana. Dal fondo avanza il buio ma in mezzo, a tratti, s'imprimono gli attori, si manifesta il teatro.
Homologia di Dispensa Barzotti è forse l'esito produttivamente più compiuto di questo Scenario, un teatro di figura che si rivolge anche agli adulti nella scelta di guardare alla vecchiaia, tema raramente approcciato dalle giovani generazioni teatrali. L'atmosfera è rarefatta. C'è un anziano seduto in poltrona, indossa una maschera che ricorda certe visioni dei Familie Flöz. Le pagine del quotidiano che sta leggendo prendono vita e si librano nell'aria, si celebra una festa di compleanno e si gonfiano palloncini che sono sempre sul punto di scoppiare, dopo che una lastra polmonare aveva impresso uno sviluppo alla drammaturgia mentre le invenzioni della scena l'avevano avviluppata con sapienza (veli di plastica che sembrano avere propria volontà, scatole regalo la cui semplice apertura crea aspettative “magiche”, specchi che doppiano una realtà dai contorni instabili, venata da musichette televisive e nostalgiche milonghe).
Homologia, ph Gloria Soverini
Scrive Stefano Laffi, nel bel volume collettivo Crescere nonostante (Edizioni dell'Asino, 2015), che i giovani si trovano oggi a muoversi nel buio, senza esempi ai quali rifarsi, dal momento che l'esperienza degli adulti ha perso il suo valore esemplare. Questo Premio Scenario ci spinge a pensare ai nuovi gruppi come i giovani descritti da Laffi, impegnati a costruire nel buio, in cerca di direzioni da costruire attraverso procedimenti sperimentali. L'esperienza di chi li ha preceduti, pure presente, pare un patrimonio ancora da riattivare, forse perché considerata come elemento fra i tanti della ricerca, come tale frutto di una percorso di scoperta. Valga come constatazione, questa ultima, nella speranza che venga letta come incentivo ma che si accompagni anche a un sollievo, a una sorpresa per la nascita di direzioni che ci paiono indipendenti, autonome più che in altri anni.
Caroline Baglioni, con lo spettacolo Gianni è risultata la vincitrice del Premio Scenario per Ustica. L'attrice si presenta come autrice facendo parte di un sodalizio artistico attivo da oltre un decennio, quello dei perugini La società dello spettacolo. La sua è una “presenza scenica non identificata”: entra sul palco con un ammasso di scarpe, indossa una sottoveste rosa, calza scarpe spaiate, una da donna e una da uomo. Incede obliqua, i suoi movimenti non si configurano come danza eppure nemmeno rimangono inerti gesti giustapposti. La Baglioni cadenza una parlata perugina, tronca le parole quel tanto che basta per forgiare una lingua che non è né italiano né dialetto. Parla in prima persona, ma al maschile. Allude a un'ossessione per l'altro sesso mai soddisfatta, a una nevrosi della conquista in serate passate all'Umbria Jazz. Gradualmente capiamo che l'attrice sta impersonando suo zio, del quale ha ritrovato registrazioni in audiocassetta che ha scelto di incarnare. Spirali di fumo in controluce s'imprimono da un lungo bocchino, con lei/lui ascoltiamo le canzoni amate e ascoltate dallo zio come fossimo al suo fianco, in macchina, a manovrare la rotellina dell'autoradio. Con lui/lei vogliamo un pensiero superficiale che renda la pelle splendida (Afterhours), chiudiamo gli occhi e pensiamo a te (Battisti), perché scopare bene è la prima cosa (Venditti). Con lei/lui pensiamo all'intimità di una vita bislacca, allontanata verso i margini, una vita che si chiede «che cosa è la felicità», e se questo diario registrato abbia «avvicinato una qualche verità». Con Gianni pensiamo al teatro, all'occasione che offre di prendere parola in prima persona diventando altro da sé, pur parlando di sé. Un teatro che permette a noi spettatori di vederci riflessi per frammenti in vite che non sono la nostra, eppure così simili.
Gianni, ph Gloria Soverini
A sollecitare tali pensieri probabilmente è anche un modo di abitare il teatro che sceglie di attraversarlo in prima persona, mettendo in discussioni ruoli e perimetri per ricostruirli a seconda di quanto si ha da dire; un modo che guarda alle forme come qualcosa di vivo e in movimento, che eleva il dubbio e la faglia a elementi centrali del processo creativo, senza celare la crisi ma anzi esponendola. In questo Scenario tale modo ha assunto le sembianze del femminile. Che si tratti di una strada pratica e di un'indicazione teorica per il teatro del futuro?
Mad in Europe, ph Gloria Soverini
Anche Mad in Europe si fonda su una frattura. Quella fra “IO”, una voce narrante che racconta ricostruisce e narra in terza persona, e “MAD”, una lavoratrice del Parlamento Europeo che ha perso la memoria e l'uso della lingua, ma che si trova nelle fasi finali della maternità proprio nell'emiciclo dell'Istituzione europea. La scena è occupata da tanti cartoni, come in un trasloco; ci sono anche un albero di Natale di plastica, una madonna di ceramica, lucine di Natale e candele. Angela Dematté racconta in prima persona, assume le sembianze di un personaggio che parla un esperanto costruito con le lingue più diffuse nel continente (inglese, francese, spagnolo, tedesco ecc), ne esce per riferirsi alla sua giovinezza di provincia all'oratorio, per riflettere sul suo stesso raccontare, sul teatro, sulla narrazione, sugli stili. “Mad” e “IO” sono entrambe incinta. Nel corpo dell'attrice ora seduta sulle scatole si alternano riferimenti a Lady Gaga, Amy Whinehouse, all'illuminismo, Kant, Hegel, ai Duran Duran, alla democrazia, a Tezenis e ad altri “marchi”. L'eloquio monocorde gradualmente sposta i confini già labili fra i personaggi, crea una mescola, un ibrido. Ascoltiamo un personaggio “parlato” che attende di sgravarsi, che ricorda le sue origini ultracattoliche, insiste sull'ossessione per una statuetta della Madonna che occupa gli orizzonti di tutti i discorsi, e il palcoscenico. È questa figlia “bastarda”, questa bambina che sta per nascere, l'Europa di oggi e di domani? Oppure siamo noi gli europei, i cittadini/parlamentari al riparo nei nostri idioletti e scarsamente in grado di intendere tale eroina deviata, marginale, diversa? In una messa in scena da rivedere, che oscilla verso molte, forse troppe polarità di quella che Gerardo Guccini chiama “performance epica”, Mad in Europe ha il grande merito di tentare una via massimalista, operazione oggi molto rara. Si parte dal minuto, ma per arrivare a discorrere e a prendere posizione niente meno che del processo di formazione di una cittadinanza europea, processo avventuroso (Z. Bauman) e oggetto di accensioni, dubbi, ritirate a livello politico almeno dal lontano 1952. Non è nuova a un tale afflato, la Dematté, avendo per esempio raccontato il terrorismo dei '70 con la lente del rapporto fra padre e figlia (Avevo un bel pallone rosso, Premio Riccione 2009). Crediamo che a un siffatto tentativo si debba aderire, riconoscendoci e provando a districarci dentro l'orizzonte linguistico spurio di Mad in Europe, dove l'identità è un ritrovato momentaneo, sempre instabile, frutto del dialogo di diversi; dove l'unico metodo possibile è quello della domanda e del dubbio, financo sul proprio operare, sul proprio linguaggio; dove il teatro è percorso non garantito sempre innervato dal tentativo di ripensare al proprio ruolo, al proprio senso.