Duna. Sentieri possibili del Teatro Le Forche
Non darsi per scontati, e chiedersi sempre “perché”. Negli ultimi mesi mi è capitato di frequentare alcune realtà pugliesi, i suoi teatri e i festival, e mi è parso che questa domanda percorresse le rassegne per i ragazzi, gli spettacoli, le residenze. Ci sono luoghi, in Italia, che contano su una tradizione cospicua da rinnovare anno per anno e che però corrono il rischio di non dare più rilievo alle ragioni che li hanno portati a nascere. Costretti a destreggiarsi fra politiche culturali carenti e in cerca di necessari posizionamenti, il racconto di sé di alcune realtà sembra fatto apposta per colpire e strizzare l'occhio. Ma cosa resta dietro l'ammiccamento? E se si mettono in secondo piano “le ragioni profonde” per le quali si fa teatro, non si rischia di ottenere solo qualche fugace like che presto si disperde nei flussi dei nostri dispositivi? Se rimarco questa differenza è perché in Puglia, con le relative differenze, mi è parso di vedere un teatro ancora molto legato alla sua “origine”.
Per discutere di questa regione sarebbe necessario ricordare quei “Teatri abitati” che hanno dato un impulso decisivo allo sviluppo delle arti sceniche, ricollocando il modello pugliese in uno specifico nazionale che si è fatto osservare come un'eccellenza. Ogni regione, quando si parla di residenze, ha la sua peculiarità da mettere in campo, ma due sono le polarità: la versione “arboretiana” emiliano-romagnola della residenza creativa nei paraggi di una produzione, o anche distante da questa, ma in ogni caso legata a periodi brevi e comunque “concessi” agli artisti; oppure la versione pugliese dei teatri abitati, attraverso la quale tramite convenzione molti piccoli teatri sono stati dati in gestione a compagnie del territorio, chiamate a tenere aperte le sale, a organizzare stagioni e offrire laboratori, oltre che a produrre.
Ebbene, in un momento in cui questo modello è fortemente messo in discussione dalle stesse istituzioni locali, che hanno emanato un bando triennale tutto spostato verso il turismo (qui si può leggere la presa di posizione di Enrico Messina di Armamaxa, storica realtà pugliese che ha deciso di non partecipare alla gara), è forse è il caso di rimarcare che il modello pugliese ha avuto quella capacità riproduttiva che altrove è mancata, seminando e facendo crescere (in compagnia di pochissime altri luoghi, come la Toscana). Questa è l'impressione di chi oggi attraversa la regione, spostandosi in diverse province, incontrando persone e comunità. Spingendosi fino a Chiatona, per esempio, era al lavoro sino al 9 agosto il Teatro le Forche, compagnia residente a Massafra e diretta da Giancarlo Luce. Un'attiva annuale laboratoriale e di spettacoli che d'estate si distende verso il mare con il progetto Clessidra, abitando una conca con le ciminiere dell'Ilva a sinistra e le linee montuose calabre a destra. Da qualche anno la compagnia produce spettacoli scritti a partire da alcuni luoghi all'aperto (un bosco, la duna, eccetera) diretti nelle ultime due edizioni da Gianluigi Gherzi, maestro di teatro relazionale-comunitario. Quest'anno è stato realizzato Dune. Sentieri possibili. Una decina di attori e attrici conducevano gli spettatori in un periplo letterario attorno allo spazio intimo-relazionale-metaforico del mare, alla presenza di uomini e donne che tutto contaminano, in una natura comunque capace di proseguire il suo corso nonostante i nostri disastri (forse non ancora a lungo), interrogandoci sugli spazi intimi aperti che non abbiamo e non ci concediamo più.
Questo e altri progetti appaiono oggi “fuori misura”, eppure realizzati non a caso a sud, distanti dai centri non solo geografici. In Puglia questo e altri progetti danno l'idea di un fermento che si percepisce anche nelle differenze, un sommovimento unitario che considera il teatro occasione collettiva e individuale per pensarsi nel presente e nel futuro. Di quali altre regioni potremmo osservare il panorama teatrale come un ecosistema? Pochissime. Una delle origini di questo fermeno è stato senza dubbio il festival Startup di Taranto, gestito dal Crest e diretto da Gaetano Collella, "invenzione sprecata" che però ha saputo aprire strade, mostrare vie e riemergere come modello nell'operare di molti. Anche alcuni progetti dei teatri istituzionali, i Teatri di Bari e il Koreja, sembrano più capaci di altri di seminare, per esempio quando lo slancio di reinvenzione è maggiore rispetto al consueto andamento “ministeriale” del Tric e del Centro di produzione. Mi riferisco nel primo caso allo storico festival Maggio all'Infanzia, vetrina polifonica eccedente sovrabbondante sulle produzioni di teatro che dialogano con le giovani generazioni (e per questo capace di ospitare eccezioni, nuove proposte, conferme, in una dinamica intergenerazionale e che fra l'altro marca una rara capacità di collaborazione fra artisti della stessa regione: dal lavoro del Teatro Kuziba a quello di Michelangelo Campanale passando per La Bottega degli apocrifi e molti altri); nel secondo caso penso al bel progetto Sul Guardare curato da Andrea Porcheddu a Lecce, che ha invitato un gruppo di spettatori a porsi domande sullo sguardo, in un concetto di educazione teatrale allargato e non generazionale.
Dal 27 luglio al 1° agosto a Novoli e Campi Salentina si è svolta la quinta edizione del festival I teatri della cupa, diretto dalle due compagnie residenti, Principio attivo e Factory Transadriatica. Si tratta di una rassegna che non ha bisogno di clamori e di claim patinati, nel tentativo di trasmettere la persuasione che nell'arte vede una possibilità per la vita delle persone. Tale indagine è però declinata come ricerca condivisa e non come apodittica convinzione, attraverso un programma che miscela spettacoli cosiddetti tout public in piazza, al crepuscolo (come Los Filonautas, un circo portatile con due naufraghi sulla loro nave, un meraviglioso “minuto” capace di attrarre l'attenzione dei bambini, dei passanti e degli spettatori) con proposte che del popolare fanno una cifra ma con qualche concessione alla facilità narrativa comico-televisiva, come La grande fuga di Meridiani Perduti, presentato in piazza a Campi Salentina, gratis, di fronte almeno a duecento spettatori. In questo caso la ricerca sui caratteri comici si avvicinava a una chiave “zelighiana” scacciapensieri, e i due anziani diventati amici su una panchina progettavano fughe da figli decisi a chiuderli all'ospizio e s'invaghivano di una zitella presunta prostituta. Un divertente grottesco curiosamente distante dalle urgenti questioni generazionali odierne. I Teatri della Cupa ha anche organizzato incontri (sulla scrittura teatrale, sul teatro comunitario, a cura di Mauro Marino) e ovviamente programmato spettacoli a pagamento, invitando per esempio Roberto Latini, la compagnia Timpano/Frosini, Roberto Anglisani con il Giobbe per la regia di Francesco Niccolini e il Diario di un brutto anatroccolo del direttore Tonio De Nitto (ne avevamo parlato qui). Fra gli spettacoli visti alcuni ci sono parsi più efficaci di altri, anche alla luce del discorso “pugliese” che stiamo tentando di condurre. Proviamo qui a darne conto, seguendo le piste che ci offrono le opere. In realtà da Novoli arriveremo a Foggia, al festival Troia Teatro: dalle favole nere di Licia Lanera alle ricerche sulla ritualità e sull'attore di Roberto Corradino. In mezzo le domande sulla scuola e sull'esilio di Antonello Taurino e Mariano Dammacco, sempre nella Cupa.
Licia Lanera (foto Luigi Laselva)
Licia sta là sul palco al nostro posto. Le sue paure, la foresta scura nella quale mette piede è la nostra stessa, se solo avessimo la forza per attraversarla. The Black Tales Tour è uno spettacolo intimo, dove Licia Lanera, in veste di attrice, regista e drammaturga (convincente affermazione anche di un nuovo corso artistico di Fibre Parallele) si approssima a un'interiorità primigenia con la quale non siamo più abituati a fare i conti. Ci siamo dimenticati di avere paura del buio, e che quella paura è importante e necessaria. Lanera ce lo ricorda, per questo nel buio ci sta anche per noi. Entra in scena con un body di pelle nera, la sua voce accarezza il nostro udito, il microfono ne amplifica le pieghe e le striature, a tratti è quasi una voce da bambina, altre volte si fa conturbante e ottundente. Questa figura sembra stare in piedi su un cubo da discoteca e ci informa di non riuscire più a dormire. Dice di pensare alle persone della sua vita, che poi si trasformano in creature che mettono paura. Ci invita a stare svegli e inizia il racconto, cominciando da Cenerentola nella versione dei Grimm, la bambina che vive nella cenere, che scappa alla festa, che incontra il principe e balla; la sua voce si stira, si arrota nel rovello delle sorellastre invidiose, i bassi dell'elettronica composta ed eseguita live da Tommaso Qzerty Danisi sono come lamine che pungono i sensi; ora la seguiamo in frammenti di trance dionisica ritimica: Cenerentola balla e Licia pulsa, col corpo, auscultando il ritmo del sangue. Nelle fiabe scelte si annida quella crudeltà dei bambini capace di dirci come stanno le cose, queste fiabe non ci fanno da specchio ma da doppio, un “come potrebbe essere” che non vogliamo più ascoltare perché sappiamo di poterci trovare qualcosa di vero e tremendo. Seguendo le suggestioni di Cristina Campo, Licia Lanera usa la fiaba non come ipotesi simbolica necessaria per la crescita, ma come ombra oscura per chi è già grande. Come quando ci porta nelle profondità e nelle altezze della voce della Sirenetta, bellissima ragazza che ha salvato un principe, è stata illusa e ora vive il dissidio di ogni amante, quando amore e morte coincidono in un annullamento dell'io. I diversi personaggi si manifestano grazie ai polifonici timbri vocali, una consistenza drammatica attoriale cangiante. Sceglierà di uccidere il principe, la Sirenetta? O si sacrificherà diluendosi tra le schiume del mare? Sotto alla voce c'è una nota fissa costante che si spezza con rintocchi melodici, prima del mare eravamo tornati nella stanza della donna, a guardare i mostri del suo armadio, sale lo straziante vocalizzo della cantante Sevdaliza, che ascoltiamo in audio e che ci ricorda il suo essere umana:
I am flesh, bones
I am skin, soul
I am human
Nothing more than human
Sì, è umana, come quando più avanti impasterà l'ossessione per il possesso di numerose paia di scarpe con la fiaba Scarpette rosse, preda di una nevrosi che confonde l'orizzonte privato con la finzione teatrale. Degli stocchi elettronici acuti si rincorrono insieme a tintinnii che paion fortissimi, scavandoci l'udito.
Che cosa tocca Licia Lanera, con The Black Tales Tour? Cosa smuove in noi? Ascoltando i suoi racconti ci accorgiamo di conoscere già quelle storie, come se quel torbido fosse di tutti. «Tu mi ami?», chiede agli occhi che spuntano sul suo armadio, e che solo lei vede nel buio della sua stanzetta. Qui forse sta una possibile chiave, nell'approssimarsi a figure femminili perdute perché non si risparmiano, figure che non conoscono convenienze e mezze misure. Donne che han capito che amare s'approssima a morire, come insegnano le fiabe. Eppure non c'è né compatimento né eroismo perché Licia non parla di Licia, quella figura sulla scena non è direttamente sovrapponibile con la sua biografia, così come non si tratta di una pura invenzione scenico-letteraria. È una figura di sogno, un sogno concretissimo e vivido che nel finale suggerisce una strada collettiva nel pensare un'eternità che sostanzia ogni relazione amorosa e umana (Non mi rammarico di nulla, canta Edith Piaf e Lanera sposta delle lettere nere con le quali compone diverse parole, come appunto “eternità”). Dopo che queste black tales ci hanno mostrato l'ingresso, siamo pronti a entrare nel nostro labirinto appartato e collettivo?
La scuola non serve a nulla di Antonello Taurino
La scuola non serve a nulla di Antonello Taurino è un oggetto teatrale non identificato. È una sorta di stand-up comedy, con un professore che racconta della sua quotidiana battaglia in una classe difficile; è uno spettacolo di narrazione, perché il docente è anche attore-autore e il suo è un ritratto “dal vero” con personaggi quali l'allievo violento, il rom che si sposta di banco tutti i giorni, il bidello Cobain e della loro scommessa di trovare almeno un elemento positivo dentro al decreto “La buona scuola”. È anche un pezzo d'attore condotto in bilico fra partitura e variazioni, con una figura allampanata che parla a noi e ai colleghi, tentenna sulle gambe, apre le braccia, avanza e torna indietro, fa per andare in una direzione poi prende l'altra, ci lancia una pallina da tennis e chiede un applauso quando dice “canguro” (come fa in classe per ridestare l'attenzione). È infine un “romanzo scolastico” che ricorda altre narrazioni, da quelle di Starnone ai racconti di Christian Raimo: qui Taurino racconta di come si possono divulgare I promessi sposi in base alle diverse etnie, di cosa avrebbe fatto Garibaldi se avesse avuto i social media (per esempio il gruppo whatsapp delle mamme dei Mille), del dilemma del crocifisso in classe, lasciato in balia del fato cioè di un calcinaccio pericolante. A volte il racconto si disperde nel gioco un po' fine a se stesso del calembour e della battuta, in uno schema drammaturgico che cerca una sua unitarietà nell'affiancamento di diversi sketch. Eppure sarebbe ingiusto domandare una maggiore compostezza a un lavoro che fa dell'eversione dallo schema la sua forza: la divagazione è qui sia difetto che principale pregio, perché normare questa nostra sciancata realtà in un racconto unitario sarebbe comunque una forzatura. Allora ben venga il rischio della lungaggine: ne emerge una fotografia desolata di un ambiente segnato da una tristezza irriducibile e solo in parte corrosa da un comico che non si dà mai per perduto. Così la trama “verticale” prevede la sospensione del professore per troppa vicinanza con i suoi alunni, dopo avere passato con loro una notte “brava” in gita (per evitare guai peggiori).
Esilio di Mariano Dammacco
Sempre di uno sconfitto è la storia di Esilio di Mariano Dammacco, con in in scena una superlativa Serena Balivo (spettacolo premio Rete Critica 2016). Compagnia residente a Modena, è capace di forgiare un drammetto surreale con punte che sfiorano il tragico-comico di un Jacques Tati e il desassossego di un Pessoa. Sono due le figure in scena. Un uomo con una tunica di brillantini che entra e commenta, come un raisonneur pirandelliano espulso dal dramma, con il compito di rimarcare la natura paradossale degli accadimenti, di spostarli nel dominio dei casi esemplari. Ci dice di essere un'anima in pena e racconta di personificazioni di principi morali destinate allo scacco. La seconda figura è un uomo che si sente sempre “fuori fuoco”, uscito dal meccanismo lavorativo carrieristico della società odierna, disoccupato, con i genitori che non si presentano a un suo kafkiano processo del quale non si capiscono i capi di accusa. Serena Balivo interpreta questa figuretta con un vestito di qualche taglia più grande del necessario, la schiena spesso protesa in avanti, le braccia penzolanti, le ginocchia che si piegano. Sembra un arlecchino sconfitto e senza losanghe. Dice che il suo mondo si sta sgretolando e il paradosso piano piano si proietta fino a noi, alle nostre vite senza spazi e senza sonno, strette tra mille task di cui gradualmente stiamo cominciando a ignorare la provenienza.
Conferenza – Nudo e in semplice anarchia di Roberto Corradino
Conferenza – Nudo e in semplice anarchia di Roberto Corradino è uno spettacolo che assomiglia a un trattato sull'attore, e che potrebbe essere mostrato a chiunque oggi studi recitazione. Segue il processo di abdicazione di Riccardo II di Shakespeare, Corradino in particolare si approssima ai discorsi del personaggio Riccardo e al suo divagare poco prima della caduta. Conferenza ha debuttato quasi dieci anni fa, ma il tempo che passa lo rende ancora più attuale. Riccardo viene detronizzato: che cosa sta accadendo a una certa idea di attore-autore-artista-solista, quando non ci sono alle spalle compagnie, registi e grandi strutture produttive? Il lavoro è tripartito: in un primo momento Corradino introduce l'entrata del personaggio, indossando i panni di un ipotetico se stesso che dialoga col pubblico, stuzzicandolo, canzonandolo, incitandolo a reagire, ripetendo come un mantra “Atto IV, prima scena”, spiegando più volte i rapporti di parentela fra i personaggi; una seconda in cui entra Riccardo per pronunciare la sua conferenza (ovviamente sempre Roberto Corradino, anche se la sua parlata assume un'altolocata erre francese), rivolgendosi agli spettatori come fossero i Lord d'Inghilterra, divagando sull'horror vacui ed estenuando l'attenzione di chi guarda; infine una terza che rompe tale dualismo recitativo per poi ricostruirlo su basi “terze”, che tengono conto di entrambi gli stati della rappresentazione. Resta, alla fine del racconto, una figura che è drammaturgicamente, registicamente e politicamente “sola”, costretta a morire senza la protezione di una rappresentazione ormai spuntata, ma anche a cedere via via frammenti della sua autorità creativa, quando invece è proprio quella dell'attore-che-scrive (prima ancora dell'attore-regista) una delle colonne della nostra tradizione teatrale italiana, uno dei fondamenti della nostra identità. È però solo partendo dalla lucida e ludica constatazione di un'emarginazione che si possono mettere a punto gli strumenti per un pensiero teatrale e artistico riproduttivo.
Troia Teatro si è svolto dal 2 al 6 agosto nel paese in provincia di Foggia e ha messo al centro l'idea trasformazione collettiva insita nei processi rituali, facendo di questa interrogazione una domanda in atto, cercando di miscelare divertimento e pensiero, feste discotecare e talk con gli artisti, buskers ed eventi intimi nelle cantine (come il toccante ciclo sui riti di Alessandra Asuni); non è semplice mettere a fuoco uno specifico capace di stare nel mezzo di queste istanze apparentemente inconciliabili, si rischia infatti di togliere spessore a ognuna delle diverse tensioni, considerando anche la tendenza a compartimentare le sezioni del programma in alcuni specifici luoghi del paese. Il tentativo è però genuino, sostenuto da numerosi volontari a cui sta a cuore il festival. In questo contesto Corradino è stato impegnato anche per una settimana di residenza, Una settimana di bontà, condotta come dialogo collaborativo insieme ad alcuni partecipanti sulle motivazioni profonde che spingono a fare teatro. Alla fonte delle arti sceniche c'è il rito, sostiene Corradino, dunque è necessario tornare a interrogarsi su quale sia lo sfondo non solo contingente del nostro fare e guardare teatro. In una società secolarizzata e post-ideologica, non è forse un caso che siano alcuni artisti a domandarsi che fine abbia fatto la dimensione rituale, provando a rintracciarne alcuni elementi capaci di ricostruire le qualità rigeneranti e trasformative che spesso ci vengono negate. La residenza non è stata un gruppo di studio ma un'indagine con sullo sfondo una domanda poetica e identitaria. Dove ci conduce l'attore, oggi? Dove portano i processi di conoscenza che si dichiarano diversi dalla realtà quotidiana? Se è vero che il teatro avviene in una dinamica di negoziazione fra individualità e pensiero collettivo, quale può essere il suo senso, il suo specifico, la sua domanda? Manca uno sfondo che ci tiene uniti, si è detto durante la residenza. Eppure tutti attraversiamo stati di passaggio, come la nascita e la morte. È forse qui che il teatro può dire qualcosa di significativo, e di unico?