Ha parlato del pubblico, di educare il pubblico... questo è un discorso che ci sta molto a cuore, anche perché spesso molti la usano come scusa per non programmare il teatro contemporaneo, con la frasetta che spesso ricorre: «il pubblico non è preparato»...
Il pubblico non è preparato, che vecchia canzone! E' da quarant'anni che il pubblico non è preparato, ma se qualcuno non comincia non potremo mai instaurare un dialogo. Parliamo di Valencia. In questo festival proponiamo alcuni questionari agli spettatori. Sappiamo che durante l'anno il consumo culturale prevalente del nostro pubblico non è il teatro, ma è la lettura. Poi vengono il cinema e l'arte, infine i musei, che sono allo stesso livello del teatro. Il nostro non è dunque un pubblico di spettatori di teatro. Eppure tutti i nostri biglietti vanno esauriti. Che succede dunque? Per noi è una riflessione profonda. L'anno scorso abbiamo aperto una linea di lavoro che si chiama "laboratorio per spettatori". Il punto di partenza era quello di propiziare una conversazione di base: fare in modo che la gente s'incontri e cominci a dire se uno spettacolo gli piace o no, se lo stimola e perché, con quali altre esperienze artistiche lo mette in relazione. Abbiamo messo in piedi una squadra di venti spettatori che ha visto tutti gli spettacoli e organizzato tre incontri pubblici per parlare delle opere. Hanno creato un blog, e in una parete della sala dove s'incontravano scrivevano commenti sotto le foto di ogni spettacolo. Commenti molto primari, basici, legati alla formazione culturale di ognuno, in ogni caso commenti molto critici. Quel gruppo oggi esiste ancora, abitualmente s'incontra per andare a teatro e al cinema, mantiene attivo il blog e soprattutto s'interroga su cosa significhi essere spettatori. Quest'anno abbiamo ripetuto l'esperienza, provando a fare un passo avanti. C'è stato un corso di 34 ore, con un esperto di mediazione culturale. In questo laboratorio proponiamo incontri con gli artisti, per me fondamentali. Oggi non è più possibile parlare di persona con Shakespeare, mentre possiamo farlo con Federico Leon. Credo che non ci sia nessuna università o struttura formativa che si possa paragonare all'esperienza di parlare con un artista, dopo che hai visto la sua opera.
Fare dunque comprendere a più persone possibile che l'arte, che il teatro, può essere qualcosa che li riguarda molto da vicino...
Esatto, questa è l'ambizione. Detto per inciso, non capisco quegli artisti che affermano, magari anche provocatoriamente, di non interessarsi allo spettatore, di fregarsene della platea vuota, di chi sta dall'altra parte... se parliamo di cultura dobbiamo parlare anche di "cultura sociale", l'arte per l'arte è un discorso superato. Nel mondo in cui viviamo non è più possibile permettersi di giustificare la creazione artistica solamente con la necessità dell'artista stesso. La necessità dell'arte è una necessità della collettività, dei cittadini, dei bambini, degli anziani, e si sostanzia nel costruzione dell'identità delle persone, nella costruzione culturale che stimola. Io cerco artisti che lavorino in questa direzione, non è sufficiente che abbiano "belle opere" da mostrare. Per questo avere un laboratorio per spettatori è per noi centrale. L'altra parte del laboratorio si basa sull'analisi, sul linguaggio per l'analisi dello spettacolo contemporaneo, con alcuni strumenti sulla storia dell'arte. Un'altra ancora ha a che fare con la memoria: ci sono incontri di un ora in cui giornalisti, altri direttori di festival, artisti - insomma persone "ospiti" a Valencia - incontrano il gruppo di spettatori e parlano del rapporto fra memoria personale e spettacoli. Discutono della loro memoria in quanto spettatori, di quali spettacoli hanno influenzato la loro vita e perché, di cosa significhi per loro sedersi in platea a guardare. Sono persone che raccontano della loro esperienza "professionale" di spettatori. Credo che queste azioni con il pubblico siano "obbligatorie" per un festival, altrimenti che cosa è un festival? Alcuni si limitano a essere luoghi di visibilità per le persone che li dirigono, più che altro, dal momento che programmano artisti internazionali spesso in prima assoluta. Ma conosco festival piccolissimi fatti in paesi di provincia che non si basano su finanziamenti pubblici ma che hanno un valore incalcolabile perché contribuiscono alla costruzione culturale delle persone che lo visitano, inclusi gli artisti. Sono esperienze creative diverse, che possono tranquillamente fare a meno delle prime pagine dei quotidiani.
Se parliamo di festival di iniziativa pubblica, questi non possono che porsi come obiettivo la costruzione di una identità culturale. Molti festival hanno un budget immenso, ma non sono nient'altro che grandi mostre, come se si prendesse una stagione di un teatro e la si concentrasse, mettendo insieme di tutto un po'. Noi non possiamo che darci parametri diversi, dobbiamo lavorare conservando una certa dose di "ideologia", dobbiamo trovare un significato nel progetto. Fra l'altro, dal momento che per fare questo lavoro si guadagna davvero poco, se non ci fosse un ritorno sotto altri parametri l'impegno che ci mettiamo non avrebbe senso. Voglio poi dire che mi sembra importante che un festival, come accade qui a Valencia, abbia una data di termine. Questo nostro modello del festival finirà nel 2012, data del decennale e ultimo anno delle cinque edizioni tematiche. Dopodiché sarà necessario tornare a inventare tutto da capo, vedere cosa è successo nella società, quali sono state le tensioni dell'arte, ma anche vedere che è successo in questa città, come è cambiata l'immigrazione, la questione femminile... ma anche come si è evoluto il consumo dell'arte, cosa è successo in Europa e in Spagna, in Sudamerica... questo è un modello che finirà, lo dobbiamo sapere. I festival con cinquant'anni di storia, se non sanno rinnovarsi, finiscono per ripetere schemi che li portano a essere una rielaborazione del turismo. A Valencia ci sono tantissimi eventi legati al turismo, Valencia Escena Oberta va in una direzione diversa, ed è per questo che ci criticano. Ma fino a che ci lasciano lavorare siamo qui!
Come vede la situazione generale del teatro in Spagna?
Il teatro in Spagna come un po' dappertutto è un disastro. Per la maggior parte è convenzionale, senza contenuti, commerciale, che non ricerca, che non scommette, che non rischia, che usa attori provenienti da cinema e tv per riempire le sale e accontentare i politici che mettono i soldi... però, ci sono anche altre vie. Ci sono piccoli festival fra i quali esiste uno scambio proficuo, anche se Valencia è probabilmente fra questi quello con il budget più alto. Quando si ha la possibilità di pensare e riflettere con persone che hanno obiettivi simili ci si mette insieme, si condividono pratiche... allora ci si rende conto di non essere soli, ci si rende conto di non lavorare solo per i 10.000 spettatori di Valencia, ma anche per quelli di un'altra città con un altro festival, in Spagna e in Europa... forse siamo un'alternativa, una minoranza... però esistiamo.
Una minoranza che esiste, alla quale lo stato e gli enti locali riconoscono una legittimità, cosa che è scontato che accada...
E invece dovrebbe accadere. Noi lavoriamo con soldi pubblici. Mia madre ha tutto il diritto di vedere un musical al teatro commerciale, ma lo stesso diritto ce l'ha la mia amica di 25 anni che odia il teatro commerciale e vuole vedere i pathosformel. Se lavoriamo con soldi pubblici lavoriamo per tutti, anche per le minoranze, cioè per tutti coloro che non trovano nella maggioranza quello che li stimola come cittadini.
Cambiando discorso, vorremmo porle un'ultima domanda sul concetto di "fuori". Un fuori rispetto all'arte, qualcosa che non è arte ma la alimenta, per usare una frase di un vecchio maestro italiano. Come un riflesso, un'ombra che cade sull'arte stessa, e che ci parla di tutto quello che sta accadendo nel mondo.. cosa ne pensa?
Credo sia indispensabile oggi che l'arte pensi alla società, e forse ancora di più a tutti coloro che non sono interessati all'arte. Questo discorso va però fatto non tanto a proposito dei risultati, quindi a partire dalle opere finite, ma piuttosto guardando ai processi che portano alla creazione. In questo festival abbiamo una produzione all'anno, mettiamo in piedi uno spettacolo che solitamente non farà una turné, uno spettacolo che si vedrà solo durante il festival, per otto o dieci giorni. Come giustifichiamo una produzione di 50.000 euro? Semplicemente raccontando che nei sette mesi precedenti al debutto abbiamo costruito un processo di creazione artistica che ha coinvolto più di quaranta persone, fra artisti, attori, tecnici, studenti, lavoratori dei luoghi che abbiamo "abitato" per la produzione (un centro commerciale e una biblioteca). I lavoratori di un centro commerciale forse non sono gli spettatori "modello" del nostro festival. Ecco perché questo processo ha implicato un "fuori" molto preciso rispetto all'opera, per me è questa la risposta alla domanda. Un processo, un percorso che va al di là di una piccola sala, con quattro pareti, dove si ritrovano solo artisti, per parlare di arte, discutere di arte e della loro visione del mondo, delle loro aspirazioni... quando un processo di creazione implica tante persone, al punto che diventa una parte della vita quotidiana di queste persone, per me questo è il fuori, un fuori al quale riconosco un valore e una necessità.