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La caduta nell'umano. Conversazione con Attilio Scarpellini di Graziano Graziani hello
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Insieme al saggio di Graziano Graziani La Realtà allo stato gassoso, pubblichiamo una lunga intervista al critico Attilio Scarpellini. Si tratta per noi di "materiali di lavoro", punti di partenza teorici per aprire una discussione, spunti concreti da cui partire per dibattere, dissentire, dialogare. 
 
Attilio Scarpellini è una figura particolare nel panorama culturale italiano, perché a fronte di una poliedricità di interessi – tratto ormai irrinunciabile tanto per gli artisti quanto per i commentatori – ha però sempre esercitato questa varietà di sguardo in un unico ambito: la critica. Ha cominciato a occuparsi di teatro dalla fine degli anni Novanta, sulle pagine di Diario, il settimanale fondato da Enrico Deaglio, dopo un’attività da critico letterario (ancora oggi è nella redazione di Nuovi Argomenti) e seguendo nei suoi ragionamenti un fil rouge che lo ha portato di recente a confrontarsi anche con l’arte contemporanea – in particolare nei quattro saggi raccolti nel volume L’angelo rovesciato, pubblicato di recente da Edizioni Idea. La sua attività di osservatore della scena, e la curiosità per i fenomeni sommersi e per gli sconfinamenti disciplinari, lo rendono un testimone privilegiato di questo decennio appena concluso, i cosiddetti anni Zero, senza tuttavia esserne contiguo per età anagrafica e spirito generazionale – come è il caso di chi scrive. Per questo abbiamo fatto una lunga conversazione, a chiusura di questo 2010, per raccogliere da punti di vista diversi gli stimoli, gli interrogativi e in qualche caso le emozioni che hanno animato il nostro sguardo sulla scena di questi anni che, a fronte di un circuito ufficiale sempre più in crisi di risorse e di senso, hanno registrato un’effervescenza per molti inaspettata.
 
 
Il panorama teatrale dei primi anni 2000, il primo decennio del nuovo secolo, presenta dei caratteri particolari. Non stiamo parlando esclusivamente della nuova generazione apparsa in quegli anni, ma di quello che si è mosso nella scena contemporanea. Innanzi tutto la quantità: un dato significativo è che ci sono centinaia di formazioni che praticano l’arte teatrale a un livello professionale. Sei d’accordo? E secondo te perché?
 
Forse perché il teatro rappresenta oggi l’interruzione più intensa e più anacronistica dei circuiti di mediatizzazione prevalenti: attraverso di esso si cerca anche di recuperare una concretezza, una realtà che appare sempre più “perduta” a quel mondo di simulazioni dove la finzione e il reale si scambiano continuamente di posto. Il teatro è ancora qualcosa che si fa utilizzando dei corpi, qualcosa che si fa in un luogo deputato alla rappresentazione, un luogo che non è “home” ma nel quale bisogna recarsi. E questo implica un incontro, l’incontro tra quelle che Jerzy Grotowski identificava come due “comunità”, la comunità del pubblico e la comunità degli attori.
Le condizioni dello spettacolo contemporaneo sembravano escludere tutto questo; innanzi tutto escludono la comunicazione tra le persone in situ e de visu, poi escludono il rapporto diretto tra i corpi – la loro imbarazzante tridimensionalità – e ancora di più escludono la possibilità di vivere un’esperienza singolare ed unica, animosamente refrattaria alla “riproducibilità tecnica”, quale è quella dello spettacolo dal vivo. Credo che parte del ritorno verso il teatro che ha caratterizzato questi ultimi anni possa essere letto come un segno di crisi, e di rifiuto, di quel fenomeno di spettacolarizzazione della vita che passa soprattutto attraverso le tecnologie audiovisive.  
 
Hai parlato di “luogo deputato” e di incontro tra comunità. Le teorie sulla postmodernità hanno insistito invece sulla fuoriuscita dell’arte dai luoghi deputati e superamento dell’umano; il teatro, negli anni Ottanta e Novanta ha aderito a queste teorie, sviluppando delle parole d’ordine conseguenziali. Il teatro si fa per strada, ovunque. In Italia ne parlava Gianni Vattimo nel suo La fine della modernità del 1985. Cos’è successo nel frattempo? Siamo tornati indietro?
 
Se siamo tornati indietro francamente non lo so: ho sempre nutrito un’istintiva diffidenza verso il nomadismo troppo sbandierato, ci siamo dovuti render conto a nostre spese che l’unica entità che si è dimostrata veramente in grado di sfruttare al meglio la propria natura nomade, extraterritoriale, alla fine è stata proprio il Capitale. La debolezza del lavoro, oggi, sta nella sua stanzialità, come quella di molta arte, anche teatrale, consiste nel suo essere comunque radicata in una lingua (e per lingua non intendo soltanto la lingua parlata di un luogo, ma un paesaggio molto più vasto): sul filo di rasoio della traduzione universale attraverso l’immagine, la comunicazione corre a perdifiato, l’espressione molto meno. I testi non corrono, si attardano, incespicano nella refrattarietà delle lingue storiche. La strada era veramente un soggetto e un luogo per il Teatro Campesino di Valdès o per il Living durante le grandi manifestazioni degli anni Settanta contro la guerra in Vietnam, non mi sembra che lo sia stata dopo, quando al contrario ha preso avvio quel progressivo movimento di privatizzazione di spazi pubblici che poi sarebbe giunto all’apice in questi anni, gli anni delle “zone rosse” e degli spazi faticosamente contesi al degrado urbano. 
Ho idea che il “pensiero debole” traduca male quello che Peter Brook aveva scritto ne Lo spazio vuoto, un saggio del 1968 fondamentale per l’estetica teatrale contemporanea, dove affermava: posso prendere qualunque spazio e chiamarlo teatro. Il problema non è di avere un luogo deputato nel senso dell’istituzione, ma di averne uno che il gesto teatrale circoscrive, un luogo in cui il teatro “accade”, come dice Claudio Morganti. È l’accadimento che trasforma lo spazio in luogo – si potrebbe quasi dire in “luogo consacrato” – non lo spazio che si ritorce sull’evento: è la Genesi della Societas Raffaello Sanzio che amplia e disperde i confini borghesi del teatro di Roma, perché il teatro può accadere ovunque, persino nei teatri… 
José Bergamin, uno scrittore spagnolo del primo novecento, diceva che il teatro è “spazio temporalizzato”. Negli anni Novanta è avanzata un po’ la concezione opposta, per cui il teatro era invece tempo spazializzato, cristallizzato nell’immagine e attraversato da un pubblico divagante e dispersivo, sempre più simile a quello che frequenta le gallerie d’arte e gli “eventi” dell’arte visiva. Se torniamo su un libro che è stato un ambizioso tentativo di leggere la scena degli anni Novanta, la scena che potremmo definire per comodità “postmodernistica”, cioè Nuova scena italiana di Stefania Chinzari e Paolo Ruffini, ci ritroviamo il ritratto di uno spettatore individualizzato, frammentato, che nella scena gode una visione solitaria, non si rapporta agli altri, e si specchia nella frammentazione delle stesse opere a cui assiste. Insomma, un soggetto “estetico”. In quella concezione e in quegli anni si stava quasi perdendo la concezione dello spettatore in quanto cittadino, soggetto non solo estetico ma politico. Ma ho l’impressione che già mentre quel libro usciva – era il 2000 – i primi spettacoli di Ascanio Celestini (fatti per altro in luoghi “non deputati”, come La Palma, il primo Rialto, o in piccoli teatri come il Furio Camillo) richiamassero un pubblico che Chinzari e Ruffini delineavano come un pubblico residuale.
 
In quel libro si porta all’estremo un’idea che era già presente negli anni Settanta: la messa in crisi del concetto di rappresentazione. Ciò che avviene in teatro non rimanda a un ipotetico originale, non rappresenta alcunché, ma è ciò che effettivamente si manifesta e si vede sul palco. Se nel Terzo Teatro ciò era legato alla ricerca dell’autentico, di un gesto vivo, negli anni Novanta invece si parla della costruzione di un mondo irrelato – sostanzialmente autistico – che è oggetto d’arte in sé. Oggi secondo te questo è un modello ancora valido per leggere i teatri del Duemila?
 
Ovviamente non lo è, lo abbiamo detto e ripetuto fino alla nausea, persino a rischio di ingenerare un equivoco: l’equivoco di contrapporre un teatro visivo, o d’immagine come era stato chiamato (credo da Bartolucci) a un teatro di parola o di ascolto – spettacolo e audience, per citare una partizione che secondo Massimiliano Civica è incastonata nella diversità culturale tra la scena italiana e quella inglese fin dal rinascimento. A rischio di sembrare dei platonici, come in parte siamo, disgustati dal proliferare delle apparenze ingannevoli. L’immagine è fondamentale nella percezione dell’evento teatrale, e lo sarà sempre. In greco “teatro” significa ciò dentro cui si guarda. 
Il paradosso del teatro di narrazione, ad esempio, consisteva nel fatto che una scena spoglia e senza immagine, debolmente segnata dalla presenza di un unico soggetto, produceva immagini a non finire che, però, erano immagini mentali che si creavano nello spettatore, più simili dunque a quelle che si formano nella mente del lettore di un romanzo. Dopo aver distrutto il riferimento al testo, rimpiazzato dalla scrittura scenica, dopo aver spazializzato l’accadimento drammatico attraverso l’installazione, sembrava che il teatro fosse sulla soglia di una nuova “letterizzazione” che molti, non a caso, interpretavano come un contraccolpo reazionario, ignorando che essa rispondeva a una profonda richiesta di senso, di racconto, proprio nell’epoca in cui le grandi narrazioni produttrici di storia (come le chiamava Lyotard) erano state abbandonate. Ma la narrazione si limitava a dire che il tempo e la parola non potevano essere esclusi dalla trasformazione drammatica che avveniva sulla scena. 
Questo affacciarsi di “immagini mentali” in un mondo dominato da “immagini cose”, da un’immaginazione sempre più reificata – dove a forza di guardare, come diceva Rousseau, non resta più nulla da vedere – prendeva un senso di liberazione della diversità del segno teatrale, una diversità che eccede di molto i confini autoreferenziali di quello che hai definito un oggetto d’arte in sé. A teatro l’art pour l’art non avrà mai corso. Vorrei sottolineare che il primo a insinuare nella poetica di un teatro radicalmente rinnovato la diffidenza nei confronti dell’immagine visiva è stato Artaud che, in uno degli appunti finiti nel Teatro e il suo doppio, contrapponeva alla “visualizzazione grossolana di ciò che è” del cinema le “immagini di ciò che non è” che il teatro produceva “grazie alla poesia”. L’attore è un catalizzatore di presenze invisibili e inattuali. Ciò detto, il modello di rappresentazione che Artaud aveva scelto per riportare la scena all’interno delle forze della vita era un modello pittorico, il famoso quadro di Luca di Leida sulle figlie di Lot… 
 
Un’altra caratteristica di questi anni è che la scena del contemporaneo quasi sempre lavora su opere originali, cioè agli antipodi di quelle che erano le coordinate del teatro di regia. La “novità” nel teatro di regia era l’interpretazione che il regista dava all’opera classica, classici del teatro piuttosto che classici della letteratura – come avviene ancora oggi, basta pensare alle opere di Eimuntas Nekrošius o Peter Stein. Sembra che la parabola del teatro di regia sia stata completamente rigettata da queste ultime generazioni. È così?
 
Non credo che quella parabola sia stata rigettata al punto da invalidare completamente il ruolo poetico della regia;  Fabrizio Arcuri, Massimiliano Civica, Manuela Cherubini sono pur sempre dei registi, anche quando si defilano in una funzione maieutica nei confronti di quello che è tornato ad essere il grande protagonista della scena contemporanea, l’attore. In un senso anzi, non c’è nulla di più ambizioso che tentare la via della messinscena “acheiropoietica” (non toccata da mano umana), della regia che, come dice Antonio Audino, “si fa da sé”, la via intrapresa da Massimiliano Civica. Sarebbe bello poter fare una storia parallela delle oscillazioni del concetto di autorità in politica e di quello di regia teatrale nel corso del Novecento. Si scoprirebbe che i più sinceri e convinti tentativi di frantumare l’autoritarismo registico e sostituirlo con un’entità democratica, collettiva, si sono spesso ribaltati nel loro contrario. Un mai sopito leninismo aleggia dalle parti della regia… 
Quella che è davvero finita è un’idea trascendente del regista demiurgo che cala sulla scena il suo disegno critico-interpretativo, il regista sovrano che già Pirandello in Questa sera si recita a soggetto vedeva intento a rimpiazzare il drammaturgo e il misero “rotolino del testo”. La vera emergenza sulle scene degli anni Duemila è stata quella dell’attore-performer, o dell’attore-autore come è stato definito, completamente responsabile della proprie drammaturgie, sia che siano originali, sia che siano riadattate alle spalle, o sulla pelle, dei grandi miti del teatro: Andrea Cosentino e Daniele Timpano, ad esempio, sono autori dei loro testi e interpreti dei loro spettacoli. Roberto Latini e Gaetano Ventriglia, d’altro canto, hanno spesso preferito intervenire sui grandi luoghi comuni della tradizione scenica, da Amleto a Otello, come prima di loro avevano fatto Carmelo Bene e Leo De Berardinis, cosa che non ha impedito a nessuno dei due di lavorare assieme ad altri interpreti o di assentarsi dalla scena come registi di spettacoli a cui non partecipavano. Ma in tutti questi casi è dall’attorialità come relazione cruciale e privilegiata con la scena che scaturisce la regia, non da uno sguardo esterno e irradiante, dove l’attore è un vaso vuoto da riempire con le indicazioni registiche. È la lezione relazionale che viene dal lavoro didattico, laboratoriale, di due grandi, per quanto isolati, interpreti-registi della nostra scena, Claudio Morganti e Danio Manfredini, a cui ogni discorso sul rinnovamento drammatico attuale dovrebbe esser fatto risalire. 
L’altro contraccolpo è il ritorno di un’autorialità originale e del lavoro drammaturgico, ma non più in una forma irrelata che la regia si incarica di mediare, magari per meglio ridurre il testo a un mero pretesto di scrittura scenica: la parola scritta non è più rifiutata perché nasce direttamente sulla scena, “sotto le assi del palcoscenico” come dice Valère Novarina, da autori che non di rado sono stati o sono a loro volta attori e registi. Già nel 1911, Jacques Copeau si chiedeva quale fosse il “posto del poeta a teatro” e si rispondeva sconsolatamente che era in fondo a destra, accanto all’uscita. Ora c’è una lenta riscoperta di dove quel posto si trovi, e in qualche modo si sia sempre trovato: sta sulla scena, accanto agli attori, spesso all’ascolto delle loro improvvisazioni, perché la parola teatrale è aperta, forata, lascia sempre uno spazio vuoto vicino a sé, resta sempre in attesa di una traduzione puntuale. Ricadendo sulla pagina, Senza corpo per citare il titolo dell’antologia di nuove drammaturgie italiane curata da Debora Pietrobono, questi testi producono un loro, inedito, corpus letterario – e ci ricordano che il testo resta comunque una delle rare memorie di un gesto sovente privo di memoria quale è il teatro. Così si stanno delineando nuove figure drammaturgiche, basta pensare al caso di Lucia Calamaro, un’autrice-regista che non disdegna di scendere direttamente sul palcoscenico. Ma anche un autore più classico, come Antonio Tarantino, ha prodotto dei testi che vengono affrontati a partire da un rapporto diretto con l’attore perché la sua scrittura lo consente.
 
La stagione che hai definito per brevità “post-modernistica”, che secondo te ha spesso intrattenuto un rapporto “ambiguo” con il linguaggio mediale tanto da non poter più distinguere la critica dall’adesione, è anche quella che ha perseguito e rivendicato uno sconfinamento del teatro nell’arte concettuale, un dialogo con l’arte contemporanea. Tuttavia dal ritratto che hai dato tu di un teatro agli antipodi di questi presupposti – come quello di Ascanio Celestini – appare tecnicamente più concettuale di questo, perché slegandosi dall’immagine reificata chiede allo spettatore la costruzione di una sua immagine mentale. È davvero così? E che rapporto c’è oggi tra un sistema come quello dell’arte contemporanea, che è tra i più ricchi del settore artistico, e quello teatrale che è invece tra i più poveri?
 
Nessuno, non c’è nessun rapporto: il commercio tra le forme artistiche del contemporaneo, come ad esempio quello tra una certa scena d’avanguardia e la performing art che Valentina Valentini ha a suo tempo segnalato a proposito del teatro di Remondi & Caporossi, si è dissolto non appena l’equivoco estetico del teatro è tornato a galla. I consumatori di shock visivi che frequentano gli spazi dell’arte contemporanea non hanno nulla, o ben poco, da aspettarsi dal teatro, soprattutto nel momento in cui esso rientra in una temporalità diversa da quella, breve ed individualizzata, della fruizione di oggetti artistici. Il formalismo artistico di tutti i tipi, che si tratti di arti plastiche o di cinema, ha sempre fiutato con un certo disgusto il carattere spurio dell’arte scenica, le sue immagini inquiete e “ferite”, la sua precarietà tecnica, la scarsa pulizia delle sue confezioni, per il solo buon motivo che uno dei grandi moventi della storia recente delle espressioni artistiche è stato di liberarsi dal drammatico e che questo movimento sia avvenuto in direzione di una maggiore astrazione, o invece di una simulazione naturalistica ancora più compiuta – che è il caso del cinematografo – non fa molta differenza. 
Negli anni Sessanta, Michael Fried, uno dei grandi sostenitori del modernismo pittorico americano, affermava che il teatro “è ora il contrario dell’arte”, convinto che il teatro comportasse una caduta nell’umano che corrompeva la perfezione formale dell’opera d’arte; il titolo, estremamente eloquente, di una delle sue principali raccolte di scritti è Contro la teatralità. Il bello è che, più o meno negli stessi anni, le arti che giungevano all’acme della propria crisi formale, spontaneamente si teatralizzavano nella performance, trasformandola in spettacolo, in cerimonia apocalittica, come se la scena fosse il luogo vuoto, vergine, verso cui il corpo dell’artista poteva tornare per celebrare il proprio auto da fé. Espulsa dalla rappresentazione, la teatralità tanto temuta da Fried si trasferiva nel gesto pittorico con l’action painting. Come se il teatro rappresentasse il confine estremo di tutte le arti, l’oscura origine che proprio per questo non aveva uno statuto formale preciso. 
Ancora oggi, quando la danza vacilla al di là dei suoi codici e nega se stessa, subito ritrova la parola e sconfina nel teatro. “Non so se quello che faccio è ancora danza o non lo è” – mi ha detto una volta Caterina Inesi – ben consapevole che questa incertezza, questa ignoranza formale, poteva essere “teatro”. È un’altra idea ricorrente di Claudio Morganti, del resto, quella per cui la scena è un luogo usurpato dove l’attore si sostituisce ad altre competenze. Il teatro è il luogo della criticità, insomma, ma anche il luogo critico per eccellenza. Ora che sto rileggendo Brecht attraverso un libro di Didi-Huberman che si chiama Quand les images prennent position (Quando le immagini prendono posizione) mi rendo conto di quante procedure tipiche dell’epica brechtiana siano state riattivate dal nostro teatro più recente. Ad esempio, il montaggio e lo smontaggio, che sono le armi con cui Andrea Cosentino ha svolto la sua critica di una realtà già mediata dallo spettacolare, utilizzando l’ottusità del comico per scardinare l’onnipotenza del visivo, la sua apparente organicità. È ormai noto, d’altra parte, quanto la recitazione estrovertita dell’Accademia degli artefatti riprenda a suo conto la lezione della distanza brechtiana, portando alle estreme conseguenze quel “mostrare che si sta mostrando” che per l’autore dell’Opera da tre soldi doveva minare l’illusione drammatica fino a trasformarla in critica dell’illusione sociale da cui era scaturita. Il risultato, nel teatro di Arcuri, è una continua sospensione della credibilità dei meccanismi finzionali in cui siamo immersi. Si potrebbe continuare con Timpano, Babilionia Teatri, Teatro Sotteraneo, o con quella critica sociale del corpo portata avanti dal teatro fisico di Elvira Frosini… C’è più critica dei dispositivi ideologici del contemporaneo sulle scene del teatro di ricerca che in qualunque altro luogo della cultura e della comunicazione, cinema compreso. È vero, il teatro è spinto ai margini del sistema delle comunicazioni per il suo eccesso di animosità, per la sua irredenta impurità formale, per i numeri esigui della sua audience. Ma, forse proprio per questo, lo strumento più povero si candida a essere anche il più eversivo…     
 
Facciamo il punto di alcuni temi che hai sollevato. Anzitutto la “caduta nell’umano”: mi sembra che la ricerca dell’umano sia un fil rouge che attraversa tutta la scena odierna.
 
È vero, la scena continua ad essere umana, troppo umana. Persino i Pathosformel, che fanno un teatro molto legato al concettuale, quando ne La prima periferia hanno proposto quell’azione con i manichini si inserivano in un solco di umanizzazione: non c’è niente di più umano di un gesto che punta ad animare l’inanimato. Ma anche il nocciolo profondo di un’immagine olografica e digitalizzata come quella di Seigradi dei Santasangre resta una figura umana nella sua fragilità, un essere che nasce si evolve e muore. Anche in questi lavori così formalizzati, insomma, siamo davanti a un’immagine in caduta rispetto a un’ipotetica purezza cristallizzata in un’immagine estetica, davanti a un’immagine imperfetta, inquieta, non patinata, non perché non sia curata ma perché non si sottrae alla sofferenza di una trasformazione.
Questo è un tarlo di questa ultima generazione a prescindere dai linguaggi estetici dei suoi spettacoli, e probabilmente non è un caso. Perché questa è una generazione nata nel dato di un’alienazione dell’esperienza e dall’esperienza. E dunque è necessariamente “la” generazione che ha il suo nervo scoperto nel problema dell’esperienza, molto più della mia o di altre che l’hanno preceduta. È una generazione che è nata e cresciuta davanti al televisore – come ha mostrato Daniele Timpano in uno dei suoi spettacoli più famosi – sognando attraverso le immagini tv un mondo che non esiste o non esiste più. C’è anche una sorta di dolore in questo. Queste ultime generazioni teatrali sono quelle che più di altre hanno parlato della memoria: hanno raccontato guerre che non hanno mai vissuto, hanno parlato di luoghi che non hanno mai visto, hanno addirittura cercato di recuperare parole di padri che con loro non hanno mai parlato. Il dramma di una rottura nella trasmissione dell’esperienza è uno dei temi che si sono poste con più forza.
 
Ma il sentirsi “posteriori a” o addirittura “postumi” – soprattutto rispetto alla storia delle grandi narrazioni dell’Otto-Novecento – è anche uno dei grandi temi della postmodernità che tu criticavi.
 
Lyotard parlava appunto di condizione post-moderna, indicando con ciò soprattutto un dato, una situazione, mentre altri, ad esempio Jameson, hanno parlato di post-modernismo, cioè di una tendenza, di una nuova forma ideologica, quella che in gran parte si è identificata con un fenomeno noto come “estetizzazione della vita”. La condizione, il dato è proprio quello del fallimento delle grandi narrazioni produttrici di storia, e dei corrispondenti soggetti: quando Celestini entra nella sua Fabbrica, e lo fa attraverso una ricerca antropologica basata su lettere e su documenti, la fabbrica è considerata, in quel preciso momento storico, un relitto, una rovina archeologica del Novecento. La classe operaia non è più la classe generale, il soggetto del cambiamento storico, eccetera; è un’identità residuale nell’ambito di una mutazione del lavoro segnata dalla produzione immateriale e post-industriale. Quel che il suo lavoro di drammatizzazione narrativa rivitalizza è proprio quel che la narrazione ideologica oscurava nella sua totalità: la singolarizzazione dell’esperienza, la storia individuale, la transizione linguistica da un universo ancora contadino al lavoro industriale. Quell’invenzione della memoria – come con una certa genialità l’ha battezzata Andrea Porcheddu in un suo libro sul teatro di Ascanio Celestini – inverte il rapporto tra il singolo e la totalità, in modo direi kierkegaardiano: non si tratta più di vedere il frammento, il particolare, il singolo dal punto di vista della totalità, come avveniva nel panottico del Novecento, ma di rileggere la totalità dal punto di vista del particolare e per questa via riabilitare ciò che per definizione è escluso dalla divagazione estetica contemporanea, cioè l’esperienza. 
I racconti teatrali sono per lo più un tentativo di estrarre una singolarità da una uniforme damnatio memoriae, di restituire la parola ai morti o a quello che Walter Benjamin chiamava il “passato oppresso”. È il presente drammatico che conferisce loro un’aura, rendendo vicino ciò che è lontano. Il frammento, certo, ma bisogna vedere l’uso che se ne fa. Se questo frammento è un resto, strappato dalla “bocca del leone” per usare un’espressione del biblico libro di Amos, una sopravvivenza, un’intermittenza poetica, come direbbe Didi-Huberman. O se è una compiaciuta citazione come la casa di Frank Gehry in California, un pezzo di vita degli anni cinquanta circondato da lamiere e trasformato in vintage. La memoria del vintage non è la stessa che spingeva Tarkovskij a ricostruire un’isba nel bel mezzo della campagna toscana attorno a San Galgano. Ho l’impressione che il vero maestro, il maestro segreto di molti artisti delle ultime generazioni teatrali che hanno cercato una riattivazione poetica della memoria sia Pier Paolo Pasolini. Non tanto quello del manifesto per un nuovo teatro, di Caldéron o di Bestia da stile – per quanto gli anni duemila abbiano segnato una generale ripresa di attenzione da parte dei registi ai suoi testi scritti per il teatro – ma proprio il critico inattuale, apocalittico, e per questo acutamente lucido, degli Scritti Corsari, il cineasta de La rabbia, lo scrittore dolente che nel flusso impetuoso della modernizzazione si fermava a contemplare la luce di un mondo che stava per essere travolto.   
 
Un altro tema che hai sollevato è quello dell’“artigianato”, che mi sembra essere un’altra caratteristica comune a questa generazione. Da un lato esso scaturisce forse anche dalla povertà dei mezzi, perché nessuna di queste compagnie ha esordito con una produzione ma sono sempre ricorsi all’autoproduzione. Dall’altro però c’è anche una scelta precisa: penso a spettacoli come quelli dei Cosmesi, dei Muta Imago, dei Sineglossa, dei Pathosformel – tutte compagnie che lavorano sulla visione – che producono immagini anche molto raffinate, che sembrano realizzate per via digitale, e invece sono effetti di illusioni ottiche, riflessi, sovrapposizioni realizzati per via artigianale, usando materiali concreti. C’è un forte gusto per il “materico”, come l’ha definito Antonio Audino.
 
Antonio ha ragione: c’è un forte gusto per il materico, per l’artigianale, e c’è anche un alto tasso di illusionismo in questi teatri. Un gusto per l’alta prestidigitazione che, personalmente, ha destato in me uno stupore quasi infantile vedendo (a+b)3, uno dei primi spettacoli dei Muta Imago. Ed è un gusto sintomatico, perché si tratta di una generazione che avrebbe potuto naturalmente andare verso l’utilizzo di tecnologie che facilitano la realizzazione della visione, tecnologie che per altro oggi sono relativamente a basso costo. Ma credo che, quando parliamo di povertà di mezzi, si debba fare attenzione a non mettere tutto sul conto dell’economia: il teatro sta vivendo l’epoca dell’estrema povertà a suo tempo evocata da Hölderlin anche e soprattutto come una radicale scelta etica ed estetica. I palcoscenici spogli di Massimiliano Civica, o il rifiuto di Andrea Cosentino di ricorre a mezzi tecnologici per parlare di montaggio audiovisivo, come invece hanno fatto altri gruppi in Italia e all’estero (uno per tutti, il new-yorkese Big Art Group di Caden Manson) sono scelte necessarie nel senso più profondo del termine. E basta rileggere i momenti in cui il teatro ha deciso di tornare radicalmente su se stesso per illuminarle di una luce meno occasionale: da Copeau a Grotowski a Brook, questi ritorni hanno sempre puntato a una semplificazione dei significanti teatrali, a una tabula rasa degli apparati scenici. È stato Bernard Dort, parlando di Copeau e di Vilar, a suggerire che questo ricorso all’essenza, all’austerità, non rappresentava un’abdicazione, ma al contrario affermava una potenza, che nella controluce del vuoto si stava alzando la più sontuosa delle cattedrali. Insomma, che non c’era ambizione più titanica. Era molto più titanica l’opera classica cinese quando ricostruiva una tempesta grazie alla mimica di due attori che si tirano a vicenda da una parte e dall’altra di quanto non lo siano gli effetti speciali utilizzati da James Cameroon in Avatar.  
 
Il teatro, forse proprio perché destinato a poche persone che lo vedono “in presenza”, assume intrinsecamente un valore di atto politico all’interno della società iper-mediatizzata che tu evocavi. Ne è quasi un antidoto naturale, lo è già nella forma, ma spesso questa forma viene supportata anche dal contenuto, da una critica diffusa alla società e alla costruzione mediatica della realtà. Però tutto questo avviene nella più totale “minorità”. Secondo te oggi è solo nella minorità che è possibile costruire un’alternativa politica a questo stato di cose?
 
Dovrei rispondere di sì, se frequento il teatro è perché credo nella minorità, anche se è la minorità di Kafka che Deleuze e Guattari evocavano in Per una letteratura minore, anche se penso che bisogna essere “minoritari alla grande”, proponendo la marginalità o l’anacronismo come la leva di un possibile rovesciamento dello stato delle cose: parte dell’ammirazione che ho nei confronti di artisti come Morganti o Manfredini credo che derivi dal fatto che loro ci riescono. 
Quanto alla società iper-mediatizzata, non credo che la sua presa sia totale – e la resistenza del teatro continua a dimostrarlo – ma semplicemente che i suoi effetti cerchino di esserlo nella loro instancabile opera di degradazione della percezione e del senso comuni. Pochi mesi fa una donna rumena è stata uccisa con un cazzotto in una fermata della metropolitana a Roma. La percezione diretta di questo avvenimento è stata pressoché nulla: la folla ha continuato a fluire tranquillamente prima di accorgersi, o di accettare di accorgersi, che c’era una donna a terra. La percezione mediata, grazie alla solita telecamera di sicurezza che ha ripreso tutto, ha sollevato un’ondata di indignazione generale. Siamo a quel paradosso massmediologico secondo il quale se un albero cade nella foresta e la televisione non lo riprende, l’albero non è mai caduto. Ma è anche vero che non stiamo ancora vivendo il nostro sdoppiamento definitivo, la nostra clonazione in quella che Jean Baudrillard chiamava una realtà integrale. Possediamo ancora un corpo, lo usiamo e, anche per contraccolpo al volatilizzarsi della sua identità fisica in un gioco di simulazioni, i temi biopolitici, i problemi posti dal nostro corpo organico non sono mai stati così vivi. 
Dobbiamo fidarci di noi stessi, smettere di abdicare al nostro sguardo per guardare soltanto quello che tutti guardano, questa dubbia eucarestia a cui volta per volta diamo nomi diversi: mainstream, società globale, mercato. I numeri del teatro sono esigui? Pazienza, sono almeno certi, disegnano la concretezza di un incontro, la comunione di un’esperienza. L’audience televisiva, al contrario, è sovranamente incerta. È bastato reintrodurre una teatralità di tipo non troppo complesso all’interno di una trasmissione televisiva come «Vieni via con me» di Fazio-Saviano per scatenare attorno ad essa un effetto comunitario che con il resto della tv non aveva più niente a che vedere, e che ricordava un po’ quei tempi in cui la televisione aveva un solo canale, era “la” comunicazione e costituiva un vero e proprio evento che avveniva nelle case degli italiani. Questo dovrebbe far riflettere: perché si ricorre a mezzi teatrali per riottenere un’attenzione di quel tipo? Perché l’attenzione alla divagazione mediatica può forse produrre una certa percentuale di consenso, ma non produce alcuna partecipazione. Non può produrla. Anzi, lì si cristallizza l’assenza totale di partecipazione.
 
Oggi il teatro come lo conosciamo è in crisi. Chiudono spazi e festival, si tagliano finanziamenti, persino l’Ente teatrale – per restare a una forma classica dell’amministrazione – è stato soppresso. Eppure nell’ultimo quinquennio, da un punto di vista espressivo, sono stati in molti a tornare alle modalità del teatro: lo hanno fatto Sabina Guzzanti, Michele Santoro e persino Marco Travaglio quando hanno visto ridursi le loro tribune in tv. Un altro dato è che la domanda di eventi dal vivo è aumentata, c’è stato il famoso sorpasso dello sbigliettamento dello spettacolo rispetto al calcio, dove a trainare verso questo traguardo però sono stati i musical di Riccardo Cocciante e simili. Quello che voglio dire è che, anche nella potenzialità espressiva, il teatro tiene dentro se stesso e il suo doppio: queste forme sono ambigue e spesso massificate, e possono nascondere più di un tranello. Chi ha vissuto la politica dei grandi eventi di Walter Veltroni a Roma lo sa bene: l’evento aggrega, ma può anche essere al contempo la negazione della partecipazione.
 
L’evento – questa parola ci sopravanza sempre. Cosa è un evento? A forza di districarci tra gli eventi programmati dalla politica degli eventi, quasi non lo sappiamo più. L’incarnazione di Cristo è un evento. La rivoluzione francese è un evento. E anche il 14 dicembre di quest’anno [il giorno della manifestazione studentesca a Roma, ndr.] è stato un evento: l’evento muta il corso del tempo e dell’esperienza dando loro un altro senso, un’altra direzione: alla vigilia dei moti del 1848 a Parigi gruppi di ribelli si accanivano contro gli orologi pubblici, prendendoli a sassate. 
Le provocazioni anti-natalizie di Ricci e Forte ai fori traianei non sono un evento, sono una conferma del potere di un sistema di comunicazione che integra moda e teatro, cultura ed industria, e che spaccia questa contaminazione come evento. L’ufficio stampa ha fatto sapere che tutte le performance erano in sold-out: volete non essere dove tutti si accalcano (e in sovrappiù dove solo un ristretto numero di happy few, invece, finirà con l’essere ammesso)? Non è un giudizio sul lavoro di Ricci e Forte. È un giudizio sulla tendenza a strutturare sempre più gli avvenimenti teatrali all’interno di un sistema di comunicazione integrato che in questo modo si trasforma nel vero evento. Più semplicemente: siamo circondati da spacciatori di cornici, di contesti più o meno glamour, più o meno accattivanti. E non possiamo neanche dire “chi se ne frega” perché subito qualche solerte operatore verrà a ricordarci che la confezione è importante quanto il contenuto o che l’arte, come dice Baricco, deve rischiare il confronto con il business, accusandoci di essere uno snob, un nemico del popolo e non so cos’altro (c’è una tremenda propensione dei comunicatori all’aggressività, che è tipica del marketing di qualunque prodotto, ma che nel teatro o in genere nella cultura è moltiplicata dalla frustrazione per il sottodimensionamento economico della merce). 
Quanto alla modalità del teatro come extrema ratio dello star-system televisivo, i bagni di folla di alcuni personaggi tv che, a un dato momento, decidono di calare il palcoscenico, sono provvedimenti emergenziali che del teatro vampirizzano soprattutto il calore, la vicinanza, la capacità di raccogliere e di mobilitare, tutte qualità che normalmente lo schermo non possiede. Ma il vero evento in questo caso è la sconfitta della bidimensionalità televisiva come terreno di esperienza e, soprattutto, di incontro. Il teatro è lo stato d’eccezione della vita e questa gente, nata e cresciuta nella serialità, nello stato d’eccezione non sa muoversi: la strada, gli altri, l’impatto con un vero pubblico, la possibilità che il controllo della propria immagine possa sfuggir loro di mano, le sono clamorosamente estranei. Esattamente come lo sono ai nostri politici postdemocratici. 
Il caso di “Vieni via con me” è un po’ diverso: lì delle forme teatrali semplici, come il monologo, o per altri versi molto frequentate dall’avanguardia, come l’elenco (è almeno dai surrealisti che il potere poetico dell’elenco viene sfruttato per produrre un effetto di lievitazione del frammento – e se non vogliamo andare così lontano, abbiamo l’esempio di Pornobboy dei Babilonia Teatri), hanno determinato un corto-circuito dell’ordinaria dispersione televisiva, simile a quello che i silenzi di Adriano Celentano produssero a Fantastico negli anni Ottanta. Nell’un caso e nell’altro, si tratta di personaggi, di singolarità estranee alla tv e che funzionano in eccesso, se così si può dire, rispetto alla sistematica sedazione emotiva che il mezzo propone. Il teatro, comunque, resta una misteriosa riserva di presenza e di partecipazione di cui la star, l’icona del cinema o della tv, prima o poi subirà la fascinazione, per provarsi, per sfidare il suo stesso statuto iconico.  
 
Eppure molta gente conosce il teatro solo come fasto retrò è polveroso: il teatro degli stabili, generalizzando un po’. Un teatro che spesso va a braccetto col potere, un teatro “cortigiano” che non scuote più nessuno. Accanto a questo, misconosciuti, ci sono i percorsi quasi monastici, appartati, di alcuni artisti che sono un po’ dei fratelli maggiori di questa generazione, per qualcuno veri e propri punti di riferimento, come Danio Manfredini o Claudio Morganti che tu citavi. Pensi che l’unica strada per conservare un’incisività artistica sia questa sorta di “emarginazione” che hanno praticato loro, essere allo stesso tempi dei grandi del nostro teatro ma anche una sorta di “paria” del sistema dello spettacolo?
 
Di questo teatro cortigiano sono sicuramente un buon esempio le recenti nomine alla guida del teatro di Roma (Gabriele Lavia) e dello stabile di Napoli, soprattutto in questo secondo caso che ha visto la brusca defenestrazione di Andrea De Rosa, sostituito da Luca De Fusco, cioè da una nullità artistica di rarissimo livello, la restaurazione sembra galoppare all’impazzata. 
Le restaurazioni, però, sono meccanismi eminentemente illusori. Questo teatro che tu definisci cortigiano non interessa neanche il potere che lo investe in termini banalmente clientelari, perché non è in grado di rappresentare nulla, a parte la propria malafede museale e un riflesso condizionato di conservazione che è solo il lato perbenistico con cui il regime attuale protegge la sua incredibile disinvoltura etica, la sua sguaiatezza di fondo, dagli sguardi troppo indiscreti dell’opinione pubblica. In una cronaca dedicata alle nomine Gianfranco Capitta ha squisitamente dipinto l’imbarazzo di Renata Polverini e di Gianni Alemanno che avevano l’aria di mettere piede per la prima volta al Teatro Argentina: sono altri i luoghi, o i simboli, in cui il loro potere si rappresenta.
Ciò detto, per ricostituire un vero teatro nazionale in Italia non basta l’effervescenza delle nuove generazioni, né che le esigue risorse destinate al teatro siano ripartite diversamente. Un progetto come il festival di Avignone, in Francia, ha avuto un senso fondativo nel momento in cui Jean Vilar ha portato il teatro alto e il teatro di ricerca alla prova dell’ascolto popolare. Ma sicuramente se non fosse stato supportato da un sistema culturale, questa ribalta che fa sì che oggi spettacoli come quelli della Raffaello Sanzio possano essere guardati da tremila persone di varia provenienza culturale, non esisterebbe. 
L’idea di creare un circuito alternativo totalmente autonomo dalle risorse dello stato – un’idea che la scena dell’ultimo decennio ha accarezzato creando luoghi e festival indipendenti, molti dei quali sono oggi chiusi – ha fallito. Può essere ripresa come metodo, ma non come sistema economico. Il problema delle risorse deve essere posto nuovamente, perché è lì che si situa il problema delle ripresa di un sistema teatrale nazionale contemporaneo, che è poi un problema di ripresa democratica, perché un teatro come quello di cui abbiamo parlato in questa intervista può interessare solo alle democrazie e alle democrazie sane. È probabile che il sistema di finanziamento basato sul Fus [Fondo unico per lo spettacolo, ndr.] vada ripensato dalle fondamenta, a partire da una ripartizione anche territoriale. Tuttavia non si può pensare di privare una nazione di un centro propulsore nazionale, e di delegare le politiche culturali ad un regionalismo esasperato che potrebbe anche essere disastroso, vista l’insipienza culturale di certi suoi rappresentanti.  
 
Il Novecento, pur essendo stato un secolo di grandi rotture e di fluidità dei linguaggi, ha condensato dei temi e delle forme in determinate stagioni piuttosto brevi, lunghe circa un decennio. È anche su questa base che si parla ancora di oggi di anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, ad esempio, per esemplificare certe tendenze e certe forme imperanti: performing art, terzo teatro, teatro-immagine, post-moderno. Nei cosiddetti anni Zero, invece, si è assistito a una esplosione delle forme e dei linguaggi (e forse anche a una stagione meno incisiva dal punto di vista delle teorie), e di colpo sono saltate le etichette. Forse perché è impossibile etichettare un fenomeno così vasto per numeri e linguaggi e così esiguo da un punto di vista teorico, o forse perché lo strumento dell’etichetta non funziona più. Comunque sia questo schema è saltato, simbolicamente con il passaggio a un nuovo secolo, addirittura a un nuovo millennio: gli anni Duemila.
 
C’è un forte senso di comunità tra chi fa teatro oggi. Non tanto comunità di intenti, quanto di condizione esistenziale – ed è molto maggiore di quello che c’era negli anni precedenti. Non è una questione secondaria, perché molte di queste generazioni sono state costrette a vivere in quella condizione paradossale descritta dal sociologo Ulrich Beck dove bisogna senza sosta dare risposte biografiche a problemi sistemici. Questo ha fatto in modo che l’arte diventasse una petizione etica. Oggi se qualcuno vuole fare arte, vuole fare teatro, lo fa in una condizione dove nulla è garantito, dove le possibilità di realizzazione sono scarsissime e anche quando si verificano sono precarie e non necessariamente corrisposte da un’adeguata remunerazione – e quindi questa scelta si caratterizza da subito come una scelta etica molto forte. Questo è già un dato, e un dato che sposta molte cose, perché già nella visione esistenziale di ciò che un artista è o non è sono cambiate molte cose.
Il secondo dato è la congestione delle poetiche a cui abbiamo assistito in questi anni. Davanti a un simile paesaggio l’unico movimento possibile credo che sia un movimento di costruzione che parta dalla serietà dell’arte e dell’artista, come primo valore, piuttosto che dall’adesione a un determinato linguaggio o a una determinata teoria. Oggi ci sono artisti che fanno cose molto diverse tra loro, ma che attraverso queste diversità riescono comunque a comunicare. Non hanno bisogno di “scomunicarsi” a vicenda – per l’appunto – come accadeva nella stagione delle avanguardie e ancora di più delle post-avanguardie. Siamo davanti a un movimento dell’arte che non sappiamo ancora come interpretare: come un movimento di resistenza o come un movimento di rifondazione. Molti artisti, ad esempio, la propria arte se la sono dovuta inventare di sana pianta, anche ripescando in forme e modalità del passato – cosa che spesso i critici di una certa età rinfacciano loro con troppa facilità, senza tener conto che nel frattempo si è verificata una frattura, un’interruzione della trasmissione della memoria culturale. Reinventare e ritrovarsi a solcare dei passi perduti è tipico di una generazione senza padri.
 
Tramontate le “etichette”, che ruolo ha la critica? Qual è oggi il suo compito?
 
Non credo che la critica debba smettere di cercare una sistematizzazione dei fenomeni che nascono. È uno dei lavori che deve fare. Ma penso che il lavoro più importante, oggi, sia portare i fenomeni artistici fuori dai loro recinti, per renderli comprensibili al di là del circuito del teatro e ricondurli in una contemporaneità più vasta. Questo piccolo mondo che è il teatro – come diceva Bergman – va messo in connessione con ciò che è semplicemente mondo. Il critico dovrebbe cercare di porsi tra l’anima e le forme, in una continua traduzione di linguaggi. E non importa dove lo faccia: su carta, sul web, in una lezione universitaria, agli incontri di Novocritico, o se egli sia un giornalista, uno storico, uno scrittore, un critico militante o, come si diceva una volta, d’occasione.
 
Il teatro ha una capacità quasi intrinseca di lavorare sui rimossi della società. Pendiamo un caso scottante, come il dibattito sul fine-vita che ha scosso l’opinione pubblica di recente, dai casi Welby ed Englaro in poi. Giornali, film, trasmissioni televisive hanno si sono susseguiti in una spirale polemica che sembra non riuscire a trovare una sintesi. Il teatro, pur prendendo posizione, ha lavorato invece sui rimossi: basta pensare a spettacoli come Tanti saluti di Giuliana Musso, o ai più recenti Pornobboy di Babilonia Teatri e Sul concetto di volto nel figlio di Dio della Socìetas Raffaello Sanzio. 
 
In Italia ci sono discorsi ed emergenze che non hanno rappresentanza. E il teatro corre spontaneamente verso ciò che non è rappresentato, per rappresentarlo. Poi esistono discorsi che sono istituiti, ma sono istituiti attraverso il filtro di un linguaggio che li semplifica per trasformarli immediatamente in grandi contrasti emotivi dove sono consentite solo due posizioni: pro o contro, o di qua o di là. Il teatro ha invece la capacità di essere complesso, e quindi ha la possibilità – minoritaria e marginale quanto si vuole – di dire quello che nessuno si vuole sentir dire. 
Malgrado io nutra forti dubbi sull’ultimo lavoro di Romeo Castellucci, gli va riconosciuto di aver mostrato senza sconti ciò che nessuno vuole vedere: ha messo in scena l’impotenza di un figlio rispetto all’agonia del padre. Ha scelto, in modo piuttosto coraggioso, di portare in scena l’abiezione, che è quello che nei dibattiti pubblici non ha voce, non ha parola, quasi non ha immagine. Utilizzare, di nuovo, la tecnica del montaggio per mettere in fila tutti i titoli di giornale sul caso di Eluana Englaro come hanno fatto i Babilonia Teatri, fa risuonare cupamente tutta la ripetitività del dibattito che si sviluppa attorno a un problema “notiziabile” che in realtà non viene affrontato: è il noto – come diceva Hegel – che per antonomasia resta sconosciuto. 
A teatro c’è la possibilità che il singolo dica una cosa che è sempre “eccedente”, di dar forma a discorsi che non hanno forma, o ne hanno una falsa, pretestuosa o ideologica. Sulla scena permane una capacità di smascheramento di ciò che è ideologico nei messaggi della contemporaneità di cui neppure le più ardite provocazioni dell’arte visiva sembrano disporre. Perché? Perché nell’arte visiva non c’è discorso, il più delle volte c’è solo brutale esposizione di un significato. C’è la reificazione di un’immagine ma non c’è discorso, e questo porta a volte a una totale sovrapposizione dell’oggetto d’arte con quello della critica. Posso mettere il dito di Cattelan davanti alla Borsa di Milano, ma perché questo atto sia un discorso sul capitalismo finanziario c’è bisogno di qualcun altro che lo fa, che lo pronunci. Lo scandalo è sempre un discorso insufficiente. 
 
Il grande rimosso dell’occidente è la morte. Lo è tanto al suo interno, perché non se ne può parlare, quanto al suo esterno, quando l’occidente la morte la esporta, ma in modo asettico e anche qui – per così dire – impronunciabile. Il teatro può essere oggi l’unico discorso laico sulla morte?
 
La possibilità di un discorso laico sulla morte è uno dei tuoi grandi crucci. Credo che proprio davanti alla morte, invece, diventiamo meno laici. Una volta Romeo Castellucci, in rapporto alla Tragedia Endogonidia, ha detto una cosa che ritengo vera e abissalmente profonda: il vero problema del tragico non è la morte ma la nascita. Forse il problema della nascita – che è ovviamente strettamente legato a quello della morte – è il vero nodo che l’arte continua a affrontare (oppure a eludere). 
Rispetto alla morte, il vero nodo del rimosso non è la morte in sé, quanto – come diceva Hermann Broch – il problema della formazione dei valori, che è ciò a cui l’arte ha teso per moltissimi anni. La morte e il valore sono legati indissolubilmente. La morte è la cartina di tornasole dei valori, perché per capire se qualcosa è assolutamente valido o no devi chiederti se si tratta di qualcosa per cui “vale la pena morire”. Morire per delle idee, si diceva. La morte – diceva Malraux – dà forma alla vita e all’amore trasformandoli in destino. La morte è un grande, terribile principio formale. Quello che manca di più oggi è un discorso sul valore e sulla forma, che è il vero rimosso dell’occidente. 
Quando noi ci troviamo davanti a un vecchio signore di novantacinque anni come Mario Monicelli, che prende la sua carrozzella e sfonda il vetro della finestra del quinto piano, malgrado sia stato un uomo di successo, un grande maestro del cinema e anche una persona estremamente amata, ci troviamo di fronte a un abisso. Questo abisso, che dobbiamo riempire in qualche modo, scatena discorsi del tipo che questo è stato il suo gesto eroico oppure la sua grande viltà. Quello che manca veramente, tuttavia, è ciò che la società non sa dire su quella morte. Perché la società in fondo si auto-assolve della morte dei singoli: tutti siamo convinti che come si nasce soli, soli si muore. In realtà, la morte è un fortissimo problema sociale, che altre epoche hanno saputo elaborare in quanto tale, almeno dal punto di vista simbolico. Questo discorso può essere ancora praticato con il teatro, ma anche con il cinema, come ha fatto Clint Eastwood nei suoi ultimi film. Sui mezzi di comunicazione invece viene costantemente eluso, oppure spettacolarizzato: in tv gli omicidi esibiti con dovizia di particolari non lasciano spazio per capire chi o cosa sia la vittima, che puntualmente viene accantonata, rimossa. Il carnefice, invece, buca il video, entra subito nei primi piani, diventa il candidato ideale del nostro reality.  

di Graziano Graziani
 

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FESTIVAL

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Arti sceniche internazionali e italiane

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Crisalide
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Le arti della scena

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