L’Italia è un paese per vecchi, dunque parlare di giovani è di moda. Nel teatro italiano tutti quanti vanno in cerca di giovani: gli spettacoli sono quasi autoprodotti e costano meno, le compagnie sono spesso costrette ad accettare condizioni poco dignitose e, se nello stesso festival si mettono insieme più opere, “giovane” diviene una categoria estetica che tiene a galla le programmazioni. Pochissimi sono quelli che rischiano, andando in cerca di compagnie sconosciute e offrendo qualche opportunità vera, per quanto è possibile fare. L’Associazione Scenario si è presa questa responsabilità dal 1987 organizzando l’omonimo premio dedicato alle forme del nuovo e, in questi anni modaioli, è divenuta un punto di riferimento per i gruppi che sono all’inizio. La scorsa settimana, al Teatro Franco Parenti di Milano, sono state presentate le quattro opere “finite” dell’edizione 2011, la “Generazione Scenario”: i vincitori di Scenario e Scenario Per Ustica, riservato quest’ultimo a spettacoli dal particolare valore civile e due spettacoli che hanno ricevuto segnalazioni speciali.
Sono tre figure piccole, osservano il mondo spesso da terra, in preda a gesticolazioni nevrotiche. I loro gesti si susseguono in un flusso ininterrotto, per brevi sequenze in sinc o disegnando traiettorie solipsistiche. Accennano a cadute, alzano le braccia come in segno di vittoria, attraversano lo spazio simulando una corsa verso mete invisibili. Spic & Span dei tre danzatori e coreografi Francesca Foscarini, Marco D’Agostin e Giorgia Nardin è una carrellata di tic, di frammenti ora astratti ora mimetici, sommossa da una colonna sonora che miscela canzonette dal gusto retrò, sporcature elettroniche percussive, refrain trionfali televisivi e ritmi martellanti. I tre indossano occhiali da sole neri e abiti dai colori fra loro complementari, ritratto tipo dell’individuo che accoglie contrasti e stridori facendosi sempre ben notare, uscito da copertine di moda dal gusto kitsch. Intanto la gesticolazione coreografica non s’arresta, come piccoli animaletti i tre ispezionano lo spazio circostante col timore di qualche minaccia invisibile, si alzano e rientrano con tre bottiglie di detersivo, lo “Spic e Span”: “nuovissimo” e “pulitissimo”, come scrivono nel programma di sala, un liquido che verrà ingerito e appeso sul fondo in tre immaginarie cappelle votive. I ritmi aumentano ancora e le tre figure sono in preda a spasmi, mentre fragori di guerre faranno calare il buio e alzare gli occhiali. Non ci può essere tregua, tutto è esposto, spinto fuori, si punta al coinvolgimento immediato di chi guarda, come a volerci fare entrare nel disarticolato loop che agisce la scena. Momenti di ironia sciolgono l’artificio di una tensione costruita con abilità e notevole presenza: eppure, anche se il baratro è dietro l’angolo, solo per pochi istanti le miriadi di passi dei danzatori scelgono di imboccarlo, evitando le pieghe che ci farebbero sprofondare in una crisi da cui ripartire.
Chi è all’inizio, in Italia, ha pochissime strade da percorrere. Può tentare di mettere in piedi uno spettacolo e poi cercare di venderlo, facendosi programmare per lo più dalla stagione parallela dei festival. Ma non è così lineare come sembrerebbe: pochi festival scommettono su realtà sconosciute, chi gestisce i teatri non ha la curiosità necessaria per capire cosa si sta muovendo e anche quando ci si apre al nuovo spesso non si hanno le risorse per sostenerlo, dovendosi prima di tutto occupare del proprio teatro, della propria compagnia. Non resta, dunque, che intessere una serie di relazioni su più livelli, provando a farsi conoscere anche partecipando a premi di varia natura e spessore, in attesa di essere notati dagli addetti ai lavori. Da questo punto di vista, Scenario è stato un punto di partenza per molti: da Emma Dante a Scena Verticale, da Teatro Sotterraneo a Pathosformel. L’elenco sarebbe lungo, a testimonianza di un Premio che da tutti è visto come uno dei pochi spiragli in un sistema teatrale sempre più chiuso e inattaccabile. Sono una quarantina i soci di Scenario: teatri e strutture in tutta Italia che concorrono a organizzare le tre fasi di selezione, prima regionali poi nazionali, con una finale al festival di Santarcangelo e il debutto, oggetto di questa cronaca. Possono concorrere compagnie che non abbiano compiuto i 35 anni di età, con progetti totalmente inediti.
Ci accolgono dietro a una trincea di cuscini, possono sembrare personaggi cechoviani invece vogliono essere clandestini di fronte a un muro. Alludono al teatro, allo spettatore, al fatto che “adesso si può andare di là”. Attraversano lo spazio e Kurt Cobain urla Smells like teen spirit. Da ora in avanti vedremo frammenti dell’Italia degli anni ‘90, frullati e reinterpretati da quattro attori che indossano accenni di personaggi: un regista cinematografico dirige le sue pedine mentre recita episodi di cronaca di Tangentopoli; una famiglia è svaccata sul divano mentre Mentana commenta la guerra del Golfo. In audio udiamo memorie collettive della tv: la sigla di Beautiful, voci da Ok il prezzo è giusto, sigle dei mondiali. I quattro attori del collettivo ReSpirale teatro, in L’Italia è il paese che amo, recitano frammenti di monologhi in soggettiva, in una modalità di scrittura scenica costruita per contrasti grossolani, costantemente commentati da musiche che colorano l’ambiente: una scena di fitness recitata mentre in audio si intervista Falcone, le vittorie mondiali accostate al rumore delle bombe, fino alla scena del titolo: le frasi di Berlusconi del ‘94 urlate da un vocalist discotecaro. Nel suo Questo è il paese che non amo lo scrittore Antonio Pascale racconta di come lo stile degli ultimi trent’anni italiani si sia fondato sui dettagli: carrellate con zoom finali di troppo, che mostrano scene che il “pudore pubblico” avrebbe dovuto celare. ReSpirale sembra compiere proprio questa operazione, inanellando una serie di sequenze tipiche senza mai alzare lo sguardo in cerca di cause e contesti, trovando il suo pubblico giocoforza d’accordo con la denuncia del poco che siamo (e chi lo negherebbe mai!), pretendendo di raccontare la realtà quando invece si sta mostrando una superficie consolatoria.
A Milano si sono visti quattro esempi di una scena che cerca se stessa e che tenta di immaginare un pubblico nuovo. Scenario ha il merito di fotografare il teatro che vien fatto in Italia nell’anno del premio: ricordiamo l’edizione del 2009 per il suo particolare carattere di “appunto” (Codice Ivan, compagnia fiorentina alla sua opera prima, aveva vinto con uno spettacolo che parlava della difficoltà di fare uno spettacolo), mentre la presente edizione mostra rischi, storture e potenzialità di quella che David Shields chiamerebbe Fame di realtà. Forte è l’esigenza di “parlare dell’oggi”: lo ha detto Enrico Castellani di Babilonia Teatri (compagnia vincitrice dell’edizione 2007) alle premiazioni dei Premi Ubu 2011, avvenute sempre a Milano il 12 dicembre. Dalle patine delle ossessioni gestuali metropolitane sui cui aleggia il rumore di bombardamenti alle fotografie con denuncia dei decenni appena conclusi. Forse, dopo una stagione di ritorno del reale che già rischia di essere pacificata tribuna di chi possiede le chiavi per risolvere a parole tutti i problemi, bisognerebbe cominciare a dire che parlare dell’oggi non è più garanzia di alcunché, perché “la realtà è sopravvalutata”, come ha detto il drammaturgo argentino Rafael Spregelburd sempre ai Premi Ubu (per approfondire, di questi e altri temi si è occupato recentemente Massimo Marino nel suo blog). Parlare dell’oggi è un’ossessione, un tormento, una ricerca che trapela dalle forme più che dai contenuti, perché di immagini e cronache della realtà siamo invasi quotidianamente. Da qui a farne l’ennesima bandierina - anche se “dalla parte giusta” - di un sistema fermo alle apparenze il passo è brevissimo.
In Due passi sono di Cristiana Minasi e Giuseppe Carullo, spettacolo vincitore del Premio Scenario per Ustica, siamo in un interno domestico: una scacchiera funge da pavimento per due attori dalla corporatura minuta, come adulti dalle fattezze di bambini. Alcuni intermezzi di canzonette francesi si alternano a un dialogo di coppia surreal-grottesco: i due non escono, sono bloccati da paure che li portano a evitare il contatto fisico reciproco, discutono di amore, desiderio, vita, morte, matrimonio. Lui vorrebbe mangiare un tozzo di pane e lei controlla la sua dieta, pretesto per gag verbali in cui si ripete la stessa sequenza di parole e gesti, come gli occhiali che scivolano sul viso risistemati in sincrono; il giornale tenuto dalle braccia tese in avanti è lo strumento per “esercizi creativi” con i quali scacciare il tedio e una realtà esterna vissuta come minaccia. Si fantastica di matrimoni, lui eternamente seduto con “le gambe molli” e lei a prendere l’iniziativa, ci si stuzzica verbalmente, un po’ Sandra e Raimondo, si anela a un futuro normale, si prova a varcare un’immaginaria soglia e ad avvicinarsi davvero: l’amore, niente di più, dicendosi cose normali e banali ma vere. Come i due attori, anche lo spettacolo è “minuto”: tensioni minime aleggiano fra le righe dei dialoghi, incrinature piccoline, scricchiolii sostenuti dal lavoro d’attore. Questo è forse il merito maggiore di uno spettacolo che, per il resto, s’inscrive con innegabile sapienza in un discorso drammaturgico e registico “del sud”, riconosciuto da ormai molti anni da Scenario e non solo: da Emma Dante a Scimone/Sframeli, dai Teatrialchemici al primo Granfranco Berardi, proponendo un’italianissima via d’uscita alle camere stantie di un quotidiano opprimente.
Al Premio sono arrivate 238 proposte che le commissioni zonali hanno vagliato scegliendo 50 spettacoli per la semifinale. Un osservatorio critico ha selezionato 15 finalisti e una giuria ha decretato due vincitori, segnalando altre due opere. Scenario organizza la prima data pubblica in un teatro di rilevanza nazionale, invita organizzatori e addetti ai lavori, nel tentativo di garantire anche una qualche circuitazione agli spettacoli. Un percorso complesso e raro che ha portato all’emersione di molti gruppi, come si è detto. Qui si ferma Scenario, consapevole di mettere questi “giovani” nelle mani di un sistema che non sarà in grado di supportarli, aprendo una porticina per artisti che, nella maggioranza dei casi, troveranno portoni sbarrati. Come spesso accade in un sistema che non funziona siamo portati a chiedere alle realtà “sane” un lavoro doppio o triplo, nel tentativo di colmare le mancanze di altri. Se da una parte questo desiderio è legittimo, dall’altro il rischio è che non si rispettino funzioni e vocazioni, creando una grande confusione. Sorgono però alcune domande, dopo tanti anni di Premio: Scenario ha incoraggiato molte nascite, probabilmente ha posto domande anche a molti percorsi in cerca di identità, non selezionando spettacoli per le fasi finali. Cosa può ancora fare, per tenere in vita la domanda di teatro di quei pochi persuasi? Alla luce della conclamata e spesso utilitaristica attenzione generale verso i giovani, quali contromisure adottare? Quale atteggiamento tenere con compagnie che opereranno nel disastro, una volta terminata l’onda lunga del premio? E come, sulla sponda opposta, continuare a porre domande di senso a chi potrebbe forse con maggiore frutto prendere altri percorsi? Questioni delicate e complesse, a cui non corrispondono probabilmente risposte definitive ma tentativi venati di inquietudine. La stessa inquietudine di alcuni gruppi transitati al Premio, i meno ascrivibili a percorsi conosciuti, quella che invita Scenario a mettere in discussione di tanto in tanto i propri intenti e a coltivare una funzione critica interna, per continuare a cercare.
Lo spazio è un grande teatro delle operazioni disadorno, senza illusionismi, senza orpelli: tutto è ciò che sembra. Una voce off descrive la macellazione dei polli, poi i tagli del filetto. Nello spettacolo vincitore del Premio Scenario 2011, Infactory di Matteo Latino, un telone di plastica copre il pavimento e alcuni dispenser impilati fungono da guardaroba immediato e mobile. Due attori maschi recitano lettere a madri assenti, soggettive sul vacuo del presente. Indossano t-shirt bifronti, con slogan stampati a chiare lettere: “I know my chickens – Do you know yours?”. I due attori iniziano a danzare, solitari ma a specchio sui due lati del palco, una coreografia da Youtube con passi irosi, non conciliati. Mentre uno si confida con la madre, l’altro giace sullo sfondo a ispezionarsi il torace nudo con una torcia elettrica. Matteo Latino e Fortunato Leccese dicono parole cadenzando la ritmica dei versi, senza colorare le voci, senza ricattare alzando i toni. Un mantra sul cibo secco: “Ho mangiato cibo secco. Ho mangiato cibo secco e sono felice. Ho i denti puliti da cibo secco nero e clandestino”. In scena due visori per radiografie vengono spostati e ricollocati, dando luce a porzioni di palco, raffreddando una temperatura che anche con il martellare di un’elettronica da ballo resta sempre bassa, glaciale. Viene allestita una parete di pellicola trasparente, lo spazio è recintato con un nastro segnalatore, bombolette spray disegnano silhouette umane in serie, sempre più piccole. Viene spaccata una madonna di gesso, a terra. Non si sa bene verso chi rivolgere il rancore, i rivoli di ribellione rimasti sottopelle. Ma, anche se il nemico si nasconde o è scomparso, quell’anelito di non accettazione è lì che cova e preme per uscire, e non è poco. La scrittura di Latino ha qualcosa delle voci borgatare pasoliniane, dei ragazzi muscolosi di Walter Siti, ma anche dei lucidissimi deliri di Philip Ridley. I suoi non sono personaggi ma accenni di figure sgrossate da uno sfondo nero, un po’ come i disegni di Andrea Bruno, dritti al cuore del discorso: “sono cresciuto rotto”, “col naso per terra schiacciato si comincia così, trattiene”. Niente autocommiserazione, nessuna rassegnazione, con la consapevolezza di avere le armi spuntate, di non essere all’altezza: solo a tratti il rischio di un lirismo trasognato da periferie, quando scaglie di luce sparate da un proiettore senza diapositive investono la pellicola trasparente e l’atmosfera si carica di Sigur Ros. Ma sono deviazioni che vanno esplorate e comprese, in un percorso da seguire, sulla strada che porta alla nascita di un linguaggio.