Salerno, dicembre 2017. In un bar nei pressi dell’affollato corso del centro città incontriamo Vincenzo Albano, organizzatore e fondatore di Erre Teatro, direttore artistico di Mutaverso Teatro, una stagione dedicata al contemporaneo in buona parte autoprodotta e che ospita otto appuntamenti da gennaio a maggio: fra gli altri si sono visti e si vedranno il Cantico dei cantici di Roberto Latini (19 gennaio), Marta Cuscunà il 9 marzo con La semplicità ingannata, il 23 marzo i siciliani Carullo/Minasi con De Revolutionibus e il 23 aprile Be Normal di Sotterraneo. Il 2 febbraio è in programma il secondo appuntamento dell’anno con Dimitri/Canessa – Wintergarten: HALLO! I’M JACKET! (Il gioco del nulla).
Che oggi si creino le condizioni per la nascita di una nuova stagione in un capoluogo, e che questa sia giunta alla terza edizione, ci pare un fatto da segnalare, convinti la storia particolare di Albano sia in grado di fornire spunti al contesto generale, pensando alle difficoltà che si registrano in ogni città se pensiamo alle politiche culturali. Stiamo infatti parlando di una città, Salerno, che nel suo arco teatrale istituzionale vanta la presenza di un teatro di tradizione, di una stagione di prosa organizzata dal circuito regionale campano e di un centro di produzione (di cui però è assai complicato rintracciare la programmazione sul web). Una città dove la scena contemporanea è ospitata grazie all’iniziativa privata, seppure con un piccolo sostegno del Comune. Ma gli echi del lavoro di Albano ci erano giunti prima di Mutaverso 2018, già dalla scorsa estate, quando avevamo appreso di una breve rassegna teatrale organizzata su una tonnara, nel Comune costiero di Cetara, in provincia di Salerno, e ancora prima grazie al progetto Itaca. La bottega dei ritorni, dove erano stati convocati attori e attrici salernitani residenti fuori città per un laboratorio-incontro (coordinato da Maurizio Lupinelli)
Albano ci invita a sederci a un tavolino, parla di successi e fallimenti, sorride sempre.
Le foto sono tutte di Stefania Tirone (la seconda e la terza scattate in occasione di Cantico dei Cantici, la terza in un momento laboratoriale de La bottega dei ritorni). Si ringrazia Renata Savo.
Chi è Vincenzo Albano?
Un appassionato, il che alimenta ancora oggi una certa perseveranza. Poco o nulla, nel tempo, mi ha distolto dal desiderio di fare del teatro una prospettiva di vita, a cominciare dagli studi universitari, che stravolsi a pochi giorni dal mio settimo esame in Giurisprudenza. Non era quello che volevo. Rinunciai a quanto avevo già fatto per ricominciare dal Dams di Bologna, un anno soltanto, il tempo di ricevere l’avviso della leva militare che svolsi come obiettore in un piccolo comune del salernitano. Mi seguirono anche gli studi, che ho poi terminato alla facoltà di Lettere dell’Università di Salerno.
Dove ti porta il tuo primo ricordo teatrale?
I primi ricordi mi riportano all’adolescenza e al consumo abbastanza ossessivo dell’opera di Eduardo in VHS, che fu regalata ai miei genitori credo in occasione di un Natale; ma anche all’abbonamento alla Stagione ’93 del Teatro A di Mercato San Severino, che invece fu regalato a me da un amico. In cartellone, tra gli altri, c’era il Totò principe di Danimarca di Leo de Berardinis. L’immagine di me in platea è ancora molto chiara, al di là dei riferimenti culturali da diciassettenne.
Qual è la tua formazione?
Per mancanza di opportunità immediate, a due anni dalla laurea mi iscrivo al Master in Impresa e Spettacolo presso l’Università di Milano-Bicocca e al corso open di organizzazione teatrale alla Paolo Grassi, senza tuttavia sostanziali prospettive dopo gli stage. Per tornare ai ricordi, ripenso però con una certa simpatia al periodo trascorso nell’ufficio turismo e spettacolo del Comune di Salerno, per il quale rinunciai a ben tre mesi di apprendistato al Piccolo Teatro. Quasi impreparate all’arrivo di uno stagista, sono stato trattato dalle responsabili come un figlioccio... la scelta di tornare a Salerno, devo dire maldestra, a distanza di undici anni rivela in realtà un suo senso, oggi che lavoro qui come Erre Teatro.
Come e dove hai continuato a cercare la tua strada?
Ritengo d’essere stato abbastanza dinamico nella ricerca, spesso ostinandomi, e di non aver mai avuto remore nel cercarne lontano dalla mia città. Devo dire però che il ritrovarmi sempre a bordocampo, nonostante gli sforzi profusi, mi ha messo a un certo punto molto in crisi emotivamente. Un’occasione concreta è arrivata solo nel 2010, proprio quando stavo pensando di prendere una seconda laurea e abilitarmi almeno all’insegnamento nella scuola primaria. Ricevetti una telefonata da Maurizio Scaparro, incontrato due anni prima a Venezia durante un laboratorio alla Biennale. Durante quei giorni ebbi infatti modo di dirgli che, pur avendo praticato la scena assieme nei gruppi teatrali della mia città, in realtà non avevo alcuna velleità attoriale, ma che speravo di poter fare l’organizzatore. Al termine di una delle giornate insieme, Scaparro mi chiamò in disparte per dirmi che se ne sarebbe ricordato. Devo dargli atto che di avere mantenuto la parola. Due anni dopo, appunto nel 2010, non prima di aver terminato anche una borsa di studio in produzione teatrale nel progetto FormArt di Ruggero Cappuccio, proprio a Salerno, mi ritrovai a Roma, con Maurizio, per ben tre anni.
Che cosa facevi?
Praticamente tutto. Segreteria organizzativa, comunicazione, produzione, regia. Non c’è mansione per la quale non mi sia stata data fiducia e sulla quale non ci sia stata condivisione di idee. Scaparro mi ha insegnato tanto in modo affabile, ironico, autorevole, ma mai severo. Dopo tre anni son venute a mancare le condizioni per continuare a lavorare insieme, anche quelle che ipotizzavano un mio impiego alla Pergola, dove Maurizio aveva un incarico di direttore delle attività internazionali… mi era stato accennato del possibile rischio di un’interruzione, eppure nulla mi lasciava presagire il rientro definitivo a Salerno, come poi avvenne.
Come nasce Erre Teatro e la Stagione Mutaverso?
Erre Teatro nasce sulle ceneri del triennio che ho appena raccontato e risponde al vuoto che ne è conseguito. Per le spese iniziali ho fatto “cassa” vendendo dei valori personali e ho poi destinato buona parte del ricavato alle mie prime esperienze di programmazione, fortemente centrate sulla mia passione per la parola scritta e in generale rispondenti alla linea artistica che volevo perseguire. Sono nate così due edizioni di Per voce sola, due di Teatrografie, l’unica (purtroppo) di GEOgrafie, rassegne low-budget di massimo quattro appuntamenti sostenute dal pubblico pagante. I primi anni di Erre Teatro sono questi, in un graziosissimo “teatro cantina” in centro città, cui riconoscevo un piccolo affitto, fino a Mutaverso Teatro 2016, la prima con cui ho consolidato l’identità dell’associazione in arco temporale finalmente più ampio e trasferito gli spettacoli nel Centro Sociale che attualmente ospita la stagione a seguito dei primi interventi istituzionali. È un’esperienza dalla fisionomia ancora imperfetta, ma se penso a come sta in piedi gioisco dei suoi piccoli-grandi risultati e dico grazie a chi, con me, si impegna a difenderli e a farli crescere. Ancora oggi Erre Teatro è lo strumento con il quale sto costruendo da solo la mia opportunità, senza più cercarne altrove o da altri. La Stagione Mutaverso è emblematica di questa “tensione” e di questa “libertà” che mi son preso, quella appunto di essere un fedele e rigoroso costruttore dei miei sogni e allo stesso tempo l’unico eventualmente autorizzato a distruggerli.
Quali domande ti guidano nel programmare la stagione?
Compatibilmente con le possibilità di spostarmi, preferisco andare a teatro e guardare personalmente gli spettacoli. Rifuggo da tutto ciò che sembra costringermi alla compilazione di un cartellone e non nascondo che ci sono momenti in cui mi renderei irreperibile, per poter accogliere, prima di tutto dentro di me, il senso che intendo dare a un incontro. Lo vivo come un atto di responsabilità per il pubblico che mi segue, come rispetto nei miei confronti e, non per ultimo, nei confronti del lavoro degli artisti stessi. Sono molto legato alle suggestioni che derivano da un “ascolto emotivo”, e da questo mi faccio guidare anche nella scelta dei lavori da invitare. Come direttore credo di esserci in ogni proposta, perché ogni spettacolo in stagione “mi muove”.
Negli ultimi tempi e soprattutto nel sud Italia mi è capitato di incontrare esperienze e progetti che ripensano ai fondamenti del teatro, alla sua necessità. Mi pare che Mutaverso Teatro si stia chiedendo “perché, il teatro, oggi?”.
Diciamo che sono io, forse in Mutaverso, a trovare risposta a questa domanda. Penso a una dimensione di umanità cui il teatro ci convoca e a cui non siamo più abituati, quasi a disagio seduti in platea uno accanto all’altro e costretti a una dimensione di lentezza e ascolto. È un meraviglioso anacronismo, a suo modo politico, che credo risponda al “perché” di cui mi chiedi.
Mi sorge una domanda identitaria anche rispetto alla vicinanza con Napoli, che è un condensato di tradizioni. Poi c’è l’esperienza “mitica” di Nuove Tendenze (1973 - 76), rassegna organizzata da Giuseppe Bartolucci. C’è il magistero legato ad Achille Mango. In tutto questo che cosa è per te Salerno?
Ogni periodo della storia è fatto di “nuovo” e la generazione di cui faccio parte lo attende con una legittima ansia. Non credo però che tale attesa debba tradursi in “nuovismo” a tutti i costi o in duelli generazionali. Proprio per questo, e rispetto alla tua domanda, guardo alla memoria di Salerno come un’eredità da custodire e rispettare, senza mitizzazioni, chiedendo però lo stesso rispetto a quanti, forti di questa memoria, negano una qualche curiosità alle nuove esperienze. Memoria non vuol dire passatismo. Uno o due testimoni di quel tempo li vedo costantemente in sala e li ringrazio di cuore. Questa è la Salerno che vivo con un certo orgoglio e anche con affettuosa severità, l’ho lasciata molte volte, per diverse ragioni e per lunghi periodi, ma non ho mai reciso definitivamente il cordone ombelicale. Credo che l’aver potuto vivere gradualmente i suoi cambiamenti, tanto da non risultarmi mai estranei, mi abbia in qualche modo aiutato. Non mi sembra che altrove la situazione sia migliore e non mi sembra che altre città rappresentino più la Mecca delle opportunità o della “qualità della vita”. La Salerno che molti hanno lasciato per scelta e quella forse troppo matrigna con le sue risorse umane al punto da disperderle in ogni “dove”, ha oggi una diversa vitalità, piaccia o no. Io penso possa riprendersi, e anche assumersi alcune titolarità anche nella programmazione culturale, a mio avviso troppo delegata.