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One day - Accademia degli Artefatti hello
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Roma, novembre 2008. L’Accademia degli Artefatti, in cartellone al Romaeuropa Festival, dopo il ritiro di una parte importante della produzione, annulla One day. Avrebbe fatto vivere il palco per ventiquattro ore, invitando a inventarne la fruizione, avrebbe criticato e affermato, estenuato, il racconto, avrebbe raccontato il teatro, affrontandone l’impossibilità. Ma quell’immersione radicale nel mondo spettacolarizzato, quell’esasperazione dei modelli a chiedere se e come fosse plausibile ancora lo spettacolo, non è stata.
Roma, settembre 2011. All’interno di Short theatre tre conferenze-spettacolo cercano di testimoniare One day, il cui vuoto ha mostrato l’urgenza delle sue domande: «Il senso del teatro oggi è la sua stessa incapacità di esistere, la sua inadeguatezza, la sua rincorsa; il suo ostinatamente voler raccontare una contemporaneità che sembra espellerlo come un virus». Arcuri affonda le mani in quel groviglio di media che trovano cittadinanza in questo mondo, anticorpi contro ogni significazione, e ne trae suoni, immagini, strategie comunicative, schemi narrativi. Anche se il viaggio tra Bucarest e Tijuana dovrebbe parlare del bambino rumeno rapito per smerciarne gli organi, in realtà la scena è così gonfia di teasers, divi, sondaggi, copie, telegiornali, notai, pubblicità, marionette, reality, che basta un messaggio erotizzante a distogliere lo sguardo e a drammatizzare Dolly Bell, un pupazzo smarrito. Niente scalfisce la superficie di queste forme posticce, stereotipate, normalizzate, insignificanti fino a essere identiche al loro opposto, e niente sembra avere la pretesa di farlo: ogni scena o movimento, attimo, parola ostenta finzione; ogni attore si sbircia, riflesso sul copione, per non dimenticare la distanza dal rappresentato; nessuno spettatore crede. In piedi, sul palco, Matteo Angius o Daria Deflorian si confessano, ma lo fanno leggendo un verbale, il loro flusso di coscienza è possibile perché già nel testo: le parole scritte da Magdalena Barile guidano, trascinano gli attori in quei sottili giochi di rimandi, menzogne e ribaltamenti di una drammaturgia che mette in crisi se stessa, svela l’inganno che è. In piedi, sul palco, Michele Andrei, come Pieraldo Girotto o chiunque altro, è attore che si nega personaggio per esserlo appieno, figura che impersona un ruolo, lo consuma e lo getta via. Solo che neanche questo è poi così “vero”, ché ogni salto e consumo è già stato stabilito, ché ci si attiene al copione (e se anche Caterina Inesi, come un notaio, sembra controllare sulle carte che tutto si svolga come stabilito, è impossibile crederle, vedendola seduta in scena con gli attori). L’insegnamento di Brecht è esplicito dall’inizio, ma gli Artefatti lo testano sul terreno dell’attuale, lo portano all’estremo e lo spingono oltre: fino a che punto regge lo straniamento? Fino a che punto il meccanismo svelato può renderci coscienza e fino a che punto è solo una forma codificata tra le altre? Quando separazione diventa non aver cura del rappresentato? Troppe risate fanno nascere il sospetto di intrattenimento, del «…sarebbe un bel viaggio se non fosse che si è partiti e si ritorna a terra». 
Se ci volgiamo a chiedere un appiglio o un’apertura, troviamo lo spettacolo di un giorno frantumato: ci resta in mente solo la sua idea mentre tra le mani abbiamo qualche ora appena. Forse questa potrebbe essere la sua forza: costretto ad acuire quella frammentarietà di storie, immagini e temi, che sin dal principio gli era costitutiva, impone allo sguardo il bisogno viscerale, il dovere irrealizzabile, di raccontare. One day non si chiude, perché non ha mai avuto inizio, e per questo il suo grido si acutizza, la sua domanda si fa centrale: come riprendere in mano gli elementi smontati del racconto, da dove ripartire per poter restituire realtà, Storia? Il compito è di esserci, «qui e ora», analizzare la contemporaneità che sembra nascondersi sotto ogni mediazione, pensarsi storicamente, e, recita il sottotitolo, finalmente vivere servirà a qualcosa. Il compito è lasciato al pubblico o, ancor più, alla critica, che, forse perché costretta a parlare troppo presto, dovendo chiudere tutte e tre le serate, ha cauterizzato velocemente una ferita ancora troppo fresca.
Concludendo potrei dire la speranza di vederlo prodotto, viverlo tutto, magari domani, ma finirei per parlare in ritardo sperando di essere in anticipo. Invece guardando possiamo scoprire: Fabrizio Arcuri dirige un Festival che sembra essere quel luogo e quel tempo per il teatro che si proponeva di essere One day. Short theatre riecheggia lo stesso moltiplicarsi di voci, immagini, linguaggi e realtà; il pubblico è altrettanto immerso, perso nel molteplice da essere costretto a trovare da solo una strada; ma qui a incontrarsi sarebbero artisti, personalità diverse, non stereotipate strategie di comunicazione o modelli identici, qui potremmo assistere alla creazione della lingua, non all’accartocciarsi di secchi simboli. Solo se gli artisti, col pubblico e la critica, prenderanno in mano il teatro, sarà possibile affrontarne l’impossibilità: Roma, settembre 2011.
 

di Matteo Vallorani


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