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Una teoria della complessità. FaustIn and out Artefatti Jelinek hello
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All'inizio si è colti da disorientamento. I testi di Elfriede Jelinek sono un diluvio di parole senza didascalie, battute al confine fra dialogo, monologo e soliloquio proferite da personaggi sfrondati da ogni riferimento contestuale. Così è anche per FaustIn and out, produzione condivisa fra Accademia degli Artefatti e Associazione Tra un atto e l'altro. Parole, parole e parole in un setting di pareti divisorie mobili usate come separè ma che ricordano pure delle lapidi. Sul fondo sta una casetta di legno su ruote, la miniatura di un cottage alpino austriaco, sui lati i fari teatrali a vista puntati all'occorrenza dal regista. Ci sono tre donne, indossano costumi di animali (una renna, un orso, un coniglio), siedono a turno sull'unica poltrona presente nello spazio, entrano ed escono per pronunciare i tre monologhi del primo atto: s'inizia con la donne e la libertà, le donne e il lavoro, le donne e una certa attitudine all'osservazione. Sandra Soncini si scaglia contro un'ineffabile concezione della donna, fra rivendicazione e predica, fra ossessione e caricatura, un precipizio sonoro dove le sillabe si sovrappongono, si rincorrono, inciampano; Francesca Mazza è segnata da un inquietante sorriso, parla di una ragazza tenuta segregata dal padre nella cantina della casa dove vivono; è attraversata dalle voci, interpreta per lampi sia il ruolo della figlia che del padre, tiene in mano un microfono che trasforma la voce replicandola con tonalità basse, "da orco"; Angela Malfitano parla rassegnata, si descrive come figlia madre e sorella, nomina il padre definendolo dio, e dichiara «io sono l'"anche", perché altrimenti non potrei essere in nessun luogo».



Gradualmente impariamo ad abitare l'iniziale spaesamento e ci accorgiamo di stare assistendo al tentativo di forzare i limiti del teatro, pur attraverso le strutture linguistiche del suo canone drammatico, recitativo, registico. Jelinek, e la regia di Fabrizio Arcuri, caricano il teatro della responsabilità della complessità, riscoprendo una sua possibile “differenza” rispetto al magma dell'arte come comunicazione. FaustIn and out, che ha debuttato a dicembre 2014 al Teatro Due di Parma, e che dopo le repliche del 20, 21 e 22 gennaio dell'Arena del Sole di Bologna sarà al Diego Fabbri di Forlì il prossimo 10 febbraio, è stato prodotto grazie al bel progetto Festival Focus Jelinek, a cura di Elena Di Gioia: spettacoli, letture, incontri tesi ad avvicinare al pubblico italiano l'opera della scrittrice austriaca, premio Nobel per la letteratura 2004. Il testo è stato scritto fra 2011 e 2012 e la stessa autrice lo definisce «dramma secondario basato su Urfaust» individuando un perno nel confronto con l'emersione costante di parole faustiane. FaustA e SpiritA, le entità drammatiche che Arcuri colloca nei corpi delle tre attrici, parlano per accumulo di citazioni, fra le quali emergono le vicende riprese dal tragico caso di cronaca di Elizabeth Fritzl, nascosta in casa dal padre e ripetutamente violentata da quando aveva diciotto anni, dal 1984 al 2008, dando alla luce sette figli. La regia accetta la sfida della complessità, scava nei riferimenti del testo e porta alla luce tre “non-personaggi” che sfumano le corrispondenze fra Elisabeth e la Margherita di Goethe (FaustIn), fra il padre e Mefistofele (FaustOut) e fra lo spirito della terra faustiano e tutte le presenze femminili di Jelinek.



Il secondo atto si apre con un tavolo da conferenze, le relatrici si abbandonano annoiate sulle sedie e a loro si aggiunge un sornione Mefistofele (Matteo Angius), con tanto di targhetta portanome, personaggio in continuità con l'universo linguistico postdrammatico degli Artefatti. Mefistofele Angius veste jeans e t-shirt, sul capo indossa una maschera rossa con corna e orecchie luciferine, siede stravaccato con le gambe appoggiate al tavolo, legge il testo di Goethe come un dramaturg in cerca di orientamento. Poi commenta le parole delle attrici, suggerisce la battuta mimando i vocalizzi dei personaggi ottocenteschi, ma non viene ascoltato. Le attrici restano travestite da animali, come fossero le “funzioni” di una fiaba la cui morfologia ha perso ogni possibilità di scioglimento, eppure le loro parole sembrerebbero voler spiegare il racconto che incarnano ma anche la loro stessa ossessione al narrare, forse simile a quella che ha mosso Faust. Proliferano divulgazioni di teoria economica e quesiti filosofici. Sarà la condizione post-capitalistica a dare un senso al tutto? Si proietta un video in stile scribing da talk show in cui una mano e il suo pennarello illustrano i concetti di un sistema che punta all'arricchimento di pochi. O sarà invece la via filosofica a darci le chiavi, un germanesimo in grado di «valutare la storia solo col metro dei filosofi», come l'autrice stessa afferma in un'intervista presente nel volume Nuvole. Casa.? Ecco allora Heidegger e il suo Essere e Tempo manifestarsi come “altro” polemico, trasformato da Arcuri in un'irrestibile telefonata in cui la voce di Vattimo discetta delle teorie heidegerriane e di «che cosa significa essere». In scena l'Operaia FaustOut (Sandra Soncini) si ribella al suo dettato, sproloquia di nastri trasportatori e di domìni delle merci, reca con sé un pacco di un imprecisato reparto imballaggi che si trasforma nel televisivo «rifiuta l'offerta e va avanti!». E andando avanti compare un'addetta scaffalista in un giallo abito ottocentesco («la filosofia», interpretata da Marta Dalla Via), licenziata dal suo supermercato per avere rubato dei budini scaduti. «Prendo solo ciò che non vale niente.. che valore diamo a qualcosa di scaduto?». Saranno lo scarto, l'atto non previsto né dalla norma né dal suo rovescio, a offrire la possibilità di formulare una possibile teoria del tutto?

Il terzo atto trae le conclusioni. In scena la figlia/Margherita pronuncia un'accorata lettera al padre, mentre due uomini (Angius e lo stesso Arcuri) installano attorno alla sua poltrona quattro pareti metalliche, nascondendola alla nostra vista. È il cubicolo di due metri per due della prigionia, ma è anche un set televisivo che rimanda l'immagine dell'attrice in nightshot, un primissimo piano in bianco e nero che invoca salvezza senza troppa convinzione, prendendo definitivamente atto di una realtà inautentica, tutta racchiusa in uno schermo. Nessuna disperazione, sapendo non di avere toccato il fondo, ma di «essere il fondo».

Sarebbe bello sapere cosa avrebbe scritto Peter Szondi, l'autore della Teoria del dramma moderno, a proposito di questo testo. Innegabilmente connesso a una certa tradizione e al suo “dopo” (Brecht, Müller, Bernhard, Fassbinder), dunque con i piedi piantati dentro alla crisi del dramma e alla consunzione del rapporto dialogico intersoggettivo, aleggia però in FaustIn and out anche un'opposta tensione che resiste alla dissoluzione, forgiando personaggi in preda a ossessioni. Le ossessioni non necessitano di spiegazioni, esistono senza la "consolazione" di un contesto le giustifichi e si situano in prossimità del conflitto, motore della forma drammatica. Lo sguardo di Fabrizio Arcuri ha il pregio di dare luce a questa complessità -– che pare essere a tutti gli effetti un'occasione per rilanciare il teatro del presente e del futuro –- ha il merito di metterla in movimento senza cadere nella tentazione di risolverla, ma scegliendo di accostarvisi con pudore e curiosità. Sguardo complementare all'attitudine di Mazza Malfitano e Soncini, che abitano la recitazione sottraendo spessore e guadagnando verità, in quel sottile confine fra condensazione del personaggio ed evaporazione in pura voce.


di Lorenzo Donati


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