Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un'altra Europa
Di quale teatro stiamo parlando, quando parliamo del teatro dell'Europa dell'Est? Fornire una risposta stabile è la tentazione necessaria per approssimarsi a un insieme complesso, nel quale ogni singolarità meriterebbe la dignità di mondo a sé, qualora volessimo davvero inoltrarci nel campo delle poetiche e non solo evocare le estetiche di ciascuna esperienza. Andrebbe poi considerato come qualsiasi sguardo si costruisca grazie agli “occhiali” di chi racconta: nel nostro caso, una prima lente da riconoscere riguarderebbe il circuito teatrale “del centro”, costituita da grandi strutture del continente (istituzioni teatrali e festival), che con le loro programmazioni hanno contribuito a formare uno “standard” di registi e creatori, fra i quali anche alcuni artisti provenienti dall'Est Europa.
Luoghi come il Festival D'Automne di Parigi, il Festival di Avignone, l'Holland Festival di Amsterdam, il Grec a Barcellona, la Ruhr Triennale, la Biennale Teatro a Venezia, Vie Festival a Modena e altri festival internazionali hanno certamente contribuito alla fortuna di alcuni grandi metteur en scene come il lituano Eimuntas Nekrosius, il lettone Alvis Hermanis, i polacchi Krystian Lupa e Kristoph Warlikowsky, elevandoli a maestri della regia internazionale al di là degli idioletti di provenienza.
La seconda lente riguarderebbe i luoghi della ricerca, quelle strutture che hanno avuto il merito di alimentare un discorso sulle arti della scena mettendo in secondo piano discipline e generi (Steirischer Herbts, Santarcangelo Festival, Xing, KunstenFestivaldesArts, Festival di Liegi, Divalden Nitra in Slovacchia ecc). In questi contesti sono forse più marcate alcune tracce in grado di descrivere anche un possibile discorso dell'est, facendo sempre attenzione a misurare le nostre aspettative di europei dell'Ovest. Come quando ci sembra di ravvisare, come discorso ricorrente in diverse estetiche, una tensione alla “ricostruzione identitaria”: spettacoli che provano a ridare basi collettive a memorie individuali, provenienti da paesi che hanno vissuto la dissoluzione di regimi che in maniera più manifesta che altrove limitavano le libertà individuali. È il caso, per esempio, del teatro d'attore dell'ungherese Béla Pinter e del suo Our Secrets (2014) ambientato in una sala da ballo folk dove gli avventori sono consapevoli di essere controllati e registrati, in un clima a metà fra festa e sospetto. È il caso del Teatr.doc russo, movimento composto da numerosi artisti e drammaturghi che mette in scena storie vere con persone reali, inventando una forma di teatro documentario abbassando fino dove è possibile il gradiente della finzione. È anche il caso del Belarus Free Theatre di Minsk, una sorta di “autobiografia clandestina di una nazione” in un paese in cui ancora vige un regime che limita le libertà di espressione, un teatro d'attore e di regia che riallaccia i fili biografici partendo dai divieti dell'ex Unione Sovietica per arrivare alla Bielorussia odierna (Generation Jeans, 2007). Molti altri sarebbero gli esempi che ci farebbero accostare esperienze fra loro sensibilmente diverse, come quella dell'altro ungherese “noto”, Arpad Schilling, regista di un teatro a forte impatto fisico che negli ultimi anni ha abbandonato il teatro per studiare e proporre formati di interazione con strumenti prelevati dal gioco e dall'educazione, per riflettere sull'idea stessa di democrazia (The Party, 2013), o quella del regista e autore Jeton Neziraj, dal Kosovo, recentemente giunto in Italia a Vie con Qualcuno volò sul Teatro del Kosovo (riflessione sulla “libertà vigilata” di un paese situato nel cuore della questione balcanica, qui la nostra intervista) grazie all'opera di diffusione di Anna Maria Monteverdi, che sta curando un documentario sul teatro in Kosovo di prossima uscita.
Ci sarebbe poi un discorso a sé da riservare a un'area performativa che ha avuto una certa diffusione anche in Italia, impegnata a rideclinare le origini folcloriche del movimento attraverso lezioni-spettacolo o a riallacciare un legame profondo fra corpo, biografia e storia. Pensiamo al percorso dell'ungherese Eszter Szalamon, ripercorrendo il suo lavoro da magyar táncok (2005) all'ultimo MONUMENT 0 - Haunted by wars 1913—2013, che studia il rapporto fra coreografia, storia e conflitti armati. In quest'area c'è chi reimpasta l'autobiografia con la Storia in cerca di una nuova significazione del corpo e della performance (i croati Barbara Matijevic, in I'm 1984, e Matija Ferlin, con il ciclo Sad Sam) o situandosi in quella vasta zona che connette performance, non-fiction e postdrammatico, presentando le storie della Ex-Jugoslavia di nove interpreti per una possibile ricucitura fra biografie personali e vicende di una nazione che non esiste più (Damned Be the Traitor of His Homeland dello sloveno Oliver Frljić, 2010). Tale panorama resterebbe in ogni caso irriducibile a generalizzazioni troppo marcate, se lo volessimo osservare nelle sue singolarità che eccedono ogni norma, come ci pare essere il caso del performer bulgaro di ascendenza “azionista” Ivo Dimchev, della performance filosofica di Sneyanka Mihalova o della visionarietà che impasta teatro, cinema e mediatizzazione della società dello spettacolo dell'ungherese Kornél Mundruczó (Frankestein Project, 2013).
Di quale teatro stiamo parlando, dunque, quando parliamo del teatro dell'Europa dell'Est? Alcune possibili risposte nelle prossime puntate.