Un bando nazionale per progetti teatrali legati ai temi della spiritualità. Una ventina progetti selezionati, che hanno debuttato a Lucca dall'8 al 14 giugno grazie a un percorso di coproduzione fatto di brevi ospitalità e sostegno economico. La possibilità di circuitazione delle opere finite a livello nazionale in teatri parrrocchiali, cinema, sale diocesane. La presenza in cartellone di alcune importanti realtà della scena di ricerca (Punta Corsara, Andrea Cosentino, César Brie ecc) insieme ad altre compagnie meno note o amatoriali. E poi laboratori per spettatori, workshops di social media storytelling, incontri quotidiani fra compagnie e pubblico. Questo è stato Teatri del Sacro, festival biennale diretto da Fabio Fiaschini giunto nel 2015 alla quinta edizione. Si arriva a Lucca, si gira attorno al centro cittadino prendendo il camminamento sopra le mura, si scende e si arriva al Real Collegio, ex convento con chiostri, scaloni di pietra e stanze con altissimi soffitti. Gli spettacoli vanno in scena in una sala oblunga rettangolare riempita di sedie; il pubblico è folto, sembra di stare a una recita natalizia parrocchiale, invece siamo a un festival di teatro di ricerca prodotto dalla Federazione gruppi attività teatrali (Federgat), con la Fondazione comunicazione e cultura, l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e il Servizio nazionale per il progetto culturale della Cei, in collaborazione con l’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec). Teatri del Sacro ci pare una scommessa vinta, il tentativo di tenere in vita la spinta amatoriale e comunitaria del fare arte con e per la propria comunita coniugandola con la necessità di guardare fuori, di aprirsi, di farsi investire dalla diversità, dalle differenze, da domande che mettono in discussione la possibilità stessa di pensare la spiritualità. Che sia un rivolo della Chiesa a spronare il teatro a farsi occasione di pensiero, a un tempo intima e collettiva, ci pare cosa non da poco.
Senza volontà di cattura, francesco
Dimenticatevi di come ci è stato raccontato. Per un po', lasciate sullo sfondo le agiografie, le immagini di Giotto, Van Eyck, Cimabue, Guido Reni e tutti gli altri. Non pensate a Rossellini, Pasolini, Dario Fo. Francesco d'Assisi potrebbe infatti essere più vicino e quotidiano di quanto non immaginiamo; le sue domande, i suoi dubbi, i suoi tormenti potrebbero essere molto simili ai nostri, pur nell'esemplarità della sua condotta. Ci si può davvero approssimare a Francesco con questa attitudine? Lo si può osservare da vicino, da così tanto vicino? Roberto Corradino, nel suo senza volontà di cattura, francesco c'invita a provarci insieme al suo gruppo di attori (Ylenia G. Cammisa, Rita Felicetti, Antonio Guadalupi, Giò Sada). Si alzano le luci, un ragazzo e una ragazza dialogano: «Che tipo, Francesco». Chi era, veramente? Un leader? Un ditattore? Il dialogo diventa presto battibecco, si trasforma in litigio condito da grida e reciproche accuse. Dal chiostro fuori si ode qualcuno che pronuncia il nome Francesco, entra quello che pare essere un maestro di danza o un istruttore di un club, i suoi lo seguono imitandone i gesti, slanciano braccia e gambe in sequenze ordinate di gesti, lui sembra volersi gettare dal proscenio, poi prende la parola uscendo dalla finzione: «E così, Francesco lasciò i suoi e se ne andò». Gli attori stanno dentro a personaggi che vengono indossati come vestiti, sono pronti a toglierli per far affiorare i modi della performance epica, commentano le azioni appena inscenate, a tratti si presentano come attori e attrici, con i loro nomi e cognomi, alle prese con gesta biografiche “inarrivabili”. Gli attori guidati da Corradino camminano su tale filo, abitando una finzione esile, volutamente dimessa, molto prossima alla quotidianità di ogni spettatore, con alcuni picchi di sprofondamento nella finzione.
Si alternano nel racconto diversi personaggi come Madonna Povertà, il padre e la madre di Francesco, Sorella Mente (la chiesa), Fratello Carne. Ora sono tutti in cerchio, eseguono un balletto ordinato, battono le mani, hanno facce pulite e sorridono, sembrano usciti dai coretti dei bambini nella parrocchia di Corpo Celeste di Alice Rohrwacher. Madonna Povertà/Rita Felicetti però interrompe l'idillio, sostiene che il suo matrimonio co Francesco non debba essere celebrato in tal modo. Le fa eco Corradino, che fra sé e sé mormora che la conversione di Francesco fu tormentata, graduale, frutto di intimo travaglio interiore. Madonna Povertà allora li dispone a piramide, Giuni Russo in audio canta chiedendoci quale sia il segreto dell'amore e dell'amante, una donna piange, Francesco/Corradino batte il ritmo con un bastone, un ragazzo piange, un altro guarda l'orizzonte, Madonna è in proscenio con una margherita, ride contenta, sale la temperatura emotiva del rito che si sta consumando, ma l'immagine che vediamo rappresenta un gruppo umano intento in qualcosa di incasellabile, risultando bizzarra, non immediata, ambigua, misterica, e così scantonando il rischio di un ricatto emotivo.
Racconti fisici, partiture gestuali, frammenti verbali si susseguono saturando chi ascolta e guarda, limitando la possibilità di personali immaginazioni. Viene montata una tenda da campo, sembra di stare di fronte al fuoco, in cerchio, d'estate, durante un falò fra amici. Avevamo udito le note dei Baustelle, con loro ci eravamo interrogati sul senso della “tentazione”, pensando a come non si tratti del peccato, ma del prendere corpo della ragione. Non credere è ragionevole, ormai, non fosse altro per l'estrema distanza del modello francescano, per la differenza che tutti avvertiamo fra la chiesa e un'idea francescana di vicinanza ai deboli, agli ultimi (da qui, ovviamente, l'interesse che suscitano azioni e dichiarazioni dell'ultimo Papa). Si forma un cerchio, Francesco/Corradino ripete ai suoi adepti una frase che diventa mantra: «O lo fai, o non ce la fai». Discutono del Vangelo, dei Salteri, della necessità di rispettare la regola e di mollare tutto, dagli appetiti alimentari alla propria collezione di dvd. O lo fai, o non ce la fai. Lo avevamo sospettato, ora diventa più esplicita l'analogia fra la scelta di Francesco e quella di chi vuole fare teatro, senza però diventare narcisistica o eccessivamente autoriflessa, senza tentare paragoni o similitudini dirette, che apparirebbero patetiche, ma anzi fra le righe dichiarandosi inadeguati, mancanti, “minori”. Questo Francesco per Corradino e per i suoi attori è tutto quello che si è perso, tutto ciò a cui vorremmo arrivare, è qualcosa che è divenuto incocepibile per tanta lontananza ma che non dobbiamo fare a meno di inseguire, come nei vertici dell'arte. Francesco viene avvolto dal telo che prima fungeva da tetto della tenda, sembra volersene andare, sembra volere lasciare i suoi compagni che però lo trattengono e lo depositano a terra, apparentemente esanime. Sta lì, Francesco, è fra noi, ci dice come si fa, ci lascia soli a capire se siamo davvero siamo in grado, se davvero lo vogliamo.
articolo pubblicato il 23 luglio 2015