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Il cielo in una stanza: l'inchiesta surreale di Punta Corsara hello
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Quando accade di incontrare un teatro capace di districarsi nelle vicende della storia italiana degli ultimi decenni, un teatro che si pone domande difficili, che necessitano studio, scavo e che non consegnano risposte certe, né intrattenimenti, né rafforzano il senso di appartenenza a qualsivoglia comunità o banda, ma al contrario lo incrinano; quando l'arte si scrolla di dosso uno sguardo eccessivamente intimo e privato, manchevole di quell'afflato necessario per tentare discorsi su contesti che ci riguardano tutti; quando il percorso di un gruppo nel tempo si costruisce come linguaggio, un teatro di attori-e-attrici-che-scrivono e che rinnovano gli spazi di una tradizione di riferimento; allora in questi casi ci pare di vedere un teatro con un intento politico chiaro.
Così è per Il cielo in una stanza, ultima produzione di Punta Corsara, una scrittura originale di Armando Pirozzi e Emanuele Valenti, anche regista e interprete insieme allo straordinario gruppo di attori e attrici composto da Giuseppina Cervizzi, Christian Giroso, Vincenzo Nemolato, Valeria Pollice, Gianni Vastarella. Siamo nella Napoli del boom, durante la rivoluzione edilizia voluta dal “comandante” Achille Lauro, armatore, presidente calcistico, sindaco al potere in città fra '50 e '60. Una coppia emigrata in Svizzera ottiene una pensione di invalidità, torna a Napoli, acquista una di quelle case attraverso cui i ricchi e i politici stavano mettendo le mani sulla città (come racconta il film di Rosi, 1962). Ma questo è un flashback che gli attori incarnano entrando e uscendo da diversi personaggi, rincorrendosi in una scenografia di madie, ante, praticabili, porte, scalette, muri scrostati, specchiere, cassettoni: girare l'angolo in scena, sedersi su una sporgenza, camminare sulla sommità di una credenza corrisponde a salire al piano superiore, a fermarsi sulle scale o sostare su un terrazzo.
L'arrivo di un avvocato accende l'andamento drammatico: il giovane dovrebbe difendere gli interessi degli abitanti, divisi sul loro stesso destino, indecisi se accanirsi pretendendo un promesso restauro oppure accettare di andare altrove. Firmeranno le carte, gli inquilini? Si accomoderanno in una mediazione burocratica, mentre la loro casa, qui negli anni '90 sta crollando, al punto che dalle stanze si vede il cielo? C'è una vecchietta che parla in dialetto stretto e insegue i piccioni con una carabina, c'è l'inquilino del piano interrato, che non esce mai di casa e si esprime come pura voce parlando da uno sciacquone, c'è una madre con suo figlio indeciso sul da farsi, comodo in un'ignava zona grigia. La comunità non si accorda e per dirimere la controversia sarà necessario sequestrare il giovane avvocato, scoperto da tutti figlio del costruttore del palazzo, litigando animatamente fra una soluzione violenta (la sua uccisione, dunque la via d'uscita “mitica” capace di interrompere il ciclo di ingiustizie, propugnata da un inquilino difensore della libertà degli indiani d'America) e il rispetto di una via giudiziaria, incarnata dal ragionare dell'inquilino Cafiero, personaggio che porta il nome dell'avvocato che scriveva i discorsi di Lauro. Dunque la ragionevolezza, la razionalità, la dialettica al servizio di un ordine da ottenere per via giudiziale, col sospetto che la burocrazia ne dissolverà i principi. 



Pirozzi e Valenti scrivono una sorta di “inchiesta surreale” sulla storia italiana, una vicenda che attraversa i decenni con inquilini fantasmi, infortuni sul lavoro che garantiscono pensioni, patti siglati fra politici e figuri che indossano le vesti di Conti Dracula. Si apre un'anta dell'armadio e ci troviamo in Svizzera, sul balcone l'avvocato viene tenuto prigioniero, riesce a liberarsi e tutti corrono dentro e fuori e sopra le scale e le ante, ripetendo le stesse sequenze di gesti come statuine di un grande orologio meccanico. Si ascolta infine una domanda, un'irriducibile dilemma di una fabula dalle tinte squinternate, metafisiche, dove sono i bisogni particulari a muovere l'azione (ricordiamo le biografie paradossali e per questo credibili del precedente Soprattutto l'anguria di Pirozzi): «Perché deve sempre finire tutto in farsa?», si chiede uno dei personaggi. Perché questa storia, che poi riflette la Storia collettiva, non offre meccanismi di rivalsa, traiettorie che se imboccate permettono a chiunque di raggiungere dignità e felicità, anche attraverso la vita in comune nei condomini, nei quartieri, nelle città? La compagnia dichiara di guardare espressamente agli sviluppi dei personaggi di De Filippo e alle atmosfere di Enzo Moscato, ai quali si potrebbero accostare le atmosfere perturbanti inesplicabili di un Buzzati, e ancora prima la polifonia dell'“antropologia dei vicoli” di un Viviani (Fofi), in una scrittura il cui spessore aumenta di strato via via che l'intreccio procede. Ma se è il particulare la scaturigine di azioni e tensioni, la controversia fra via burocratica e deux ex-machina non potrà che restare insoluta. Il finale, in un tribunale popolare di vicini di casa che richiama la tragedia classica, convoca addirittura un morto sulla scena, il primo acquirente dell'appartamento, l'unico a potere decidere perché  fuori dalla storia, constatazione amarissima sul presente, solo un poco stemperata dal responso ai viventi: il morto è una voce che prende vita nei corpi degli attori, scossi da convulsioni e gettati al suolo in sequenze di possessione esorcistica in cui è impossibile non morire dalla risate.



Punta Corsara è uno dei pochissimi gruppi di attori e attrici che nel tempo ha ricostruito una tradizione da indossare e rinnovare: da Petito a Blok, da Shakespeare a Molière, fino alle ultime scritture originali (per esempio l'intenso, stralunato Io mia moglie e il miracolo di Vastarella, con personaggi sbalzati in un non-luogo e non-tempo eppure capaci di parlare del presente). Lo ha messo in pratica, questo scavo, riportando al centro una domanda sul senso dell'essere attori e attrici oggi, trovando una personale risposta nella relazione complessa fra personaggi e biografie, in questo ritrovandosi in pieno dentro a una tradizione dell'attore napoletano, messa a fuoco in un saggio di qualche anno fa da Stefano De Matteis sulla rivista “Teatro e Storia”.  Gli attori e le attrici Punta Corsara stanno in quel mezzo che permette di “portare” il personaggio senza mai annullarsi in esso, diventando riconoscibili come persone, in un contrappunto che accende teatralmente entrambi i poli. Mettendo a punto una cifra che accetta la sfida di raccontare l'attualità, la storia, la corruzione delle relazioni personali e collettive sempre attraverso la lente di un comico che è tentativo di resistenza, smascheramento delle nostre comuni debolezze, messa a fuoco delle nostre piccolezze come preludio per guardare a problemi più grandi, a scontri generali, forse a una ribellione. Ci si riconosce in questo passaggio dall'io a noi nello zelo ricco di gesti elastici di Emanuele Valenti, nella stolidità piena di sfumature di Gianni Vastarella, nella caratterizzazione multidimensionale di Giuseppina Cervizzi, nella femminilità melliflua e matriarcale di Valeria Pollice, nelle tonalità debordanti trasformistiche di Vincenzo Nemolato, nell'apparente normalità che rivela una intensa polifonia di Christian Giroso.

Il cielo in una stanza ha debuttato al Napoli Teatro Festival, anche produttore del lavoro insieme a Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, in collaborazione con 369 gradi.


di Lorenzo Donati


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