Francesco Chiantese, Andrej (foto di Francesco Spagnuolo)
Plic, plic, plic, un suono ipnotico, assordante nel silenzio. Plic, plic, plic. Perle cristalline gocciolano da una lampada che pende dal soffitto. Plic, plic, plic. La luce è fioca mentre una goccia alla volta, un plic dopo l'altro, nello spazio vuoto inizia a formarsi una chiazza umida che si allarga verso i nostri piedi. Lo spazio in questione è quello del Čajka Teatro d'Avanguardia Popolare di Modena, sito in via della Meccanica 19. Sulla scena è il bianco il colore dominante: il bianco delle sedute, del pavimento, delle pareti. «Bianco, tutto bianco», dice Ljuba ne Il giardino dei ciliegi di Čechov. Bianco proprio come Il gabbiano, Čajka per l'appunto.
In occasione della rassegna "Iconoclastie" a cura di Riccardo Palmieri, sono stati presentati al Teatro d'Avanguardia Popolare i lavori delle compagnie ospiti in residenza artistica proprio presso i suoi spazi. È domenica 25 marzo 2018 quando Francesco Chiantese porta in scena in prima nazionale Andrej – L'assenza di sé (sua la regia e l'interpretazione), terzo capitolo della "Trilogia dell'Assenza" dopo Requiem Popolare e Cretti, o delle fragilità. Ispirato alla figura di Andrej Rublëv, conosciuto come il più grande pittore di icone e venerato come santo dalla Chiesa ortodossa, e al regista Andrej Tarkovskij, che su Rublëv gira un film nel 1966, lo spettacolo è definito dallo stesso Chiantese come un «atto d'amore» nei loro confronti. Andrej, unico personaggio in scena, è un pittore che cerca di mettere a fuoco la natura attraverso l'elemento primigenio, l'arché di tutte le cose, come sosteneva Talete di Mileto, l'acqua. Al pari del protagonista presente nella pellicola di Tarkovskij anche il personaggio interpretato da Chiantese affronta il fango, il fuoco, la distruzione, nel disperato tentativo di immortalare la forma dell'acqua. «Non ha senso disegnare un fiume, il fiume non è l'acqua», risuona una voce dall'alto. Ma Andrej si ostina a voler disegnare l'acqua ed è proprio all'insegna dell'acqua che inizia lo spettacolo. Ricordate il plic, plic, plic? Ecco, quel suono non si interrompe mai, a volte smettiamo di ascoltarlo, ma lui è ancora lì: plic, plic, plic, continua a gocciolare sul pavimento. Il pubblico prende posto, forse lo spettacolo è già iniziato, forse ancora no, ma intanto la chiazza di umido si allarga e sulla scena non accade nulla se non quella luce, se non quel plic, plic, plic che ti scava dentro. Ci guardiamo negli occhi, noi spettatori, seduti gli uni di fronte agli altri, immersi in tutto quel bianco. Nel mezzo una striscia di spazio vuoto, due sedie rosse, di legno, pochi altri oggetti, tra cui pennelli e pigmenti colorati. Passerà qualche minuto prima che, con pesante lentezza, appaia la figura di Andrej incarnata dall'imponente fisicità di Francesco Chiantese. Si muove a piedi nudi, in silenzio, osserva in disparte la luce della lampada, e noi spettatori riempiamo la sua assenza, entriamo, poco alla volta, in uno stato contemplativo. Non parla mai, Andrej, però ascolta, ascolta delle voci off che gli offrono consigli e impartiscono insegnamenti, forse ricordi di un tempo passato, forse illusioni o suggestioni nascoste nella testa: «Mangia la tua minestra», gli dice qualcuno, «Un artista deve essere umile e puntare alla semplicità», gli spiega qualcun altro.
Andrej accende delle candele, getta in scena un pannello dipinto di nero, vi si sdraia sopra; usando un cacciavite pratica con veemenza delle incisioni, come se volesse scrostarne via il colore, allontanare l'oscurità che lo ricopre. Le tracce del suo passaggio sembrano croci asimmetriche. Si sporca, Andrej, si riempie di trucioli, rischia di ferirsi, forse si ferisce, mentre intanto dell'altra acqua appare ai nostri piedi, mescolandosi con la polvere e trasformando la tela in una zattera. Siamo lì, vicino a lui, possiamo persino percepirne l'odore, abbiamo le suole delle scarpe immerse nell'acqua e temiamo di esserne travolti, di ritrovarci bagnati (ecco l'acqua, il fango, il fuoco e la distruzione di Tarkovskij!).
Se è vero che nella creazione bisogna essere assenti a se stessi, fosse anche solo per un istante, allora Francesco Chiantese riesce a mostrare l'assenza pur rimanendo sempre presente sulla scena. Di lui rimangono soltanto dettagli, frammenti di gesti impressi nella memoria. Luci dirette e mirate evidenziano i piedi nudi, l'acqua che avanza, le mani che misurano il contorno della tela che sta dipingendo, o quello del suo corpo, l'acqua che schizza quando passa troppo vicino agli spettatori, i colori tenui del quadro che osserva e che noi contempliamo contemplando lui. Quel raggio di luce che ogni tanto proviene dall'alto, da fuori scena, come in un quadro di Caravaggio, e che Andrej prova a seguire, percorrendolo con le dita, arrampicandovisi sopra come fosse una corda. Sembra quasi sul punto di raggiungerne la fonte, poi il buio: la luce sparisce, come un'intuizione, come un barlume d'ispirazione che non si riesce a cogliere, perché l'arte è un atto sacro.
Chiantese sperimenta in una performance a stretto contatto con gli spettatori il «divenire assenza», focalizzandosi sulla figura dell'artista, sul tempo dilatato che precede sempre la creazione, rispecchiandosi con grande aderenza nell'atto iconoclasta dell'attore che distrugge i contorni del ruolo scenico per dipingerne uno nuovo con le proprie sembianze. Il suo è un teatro «dei sintomi»: ci mostra il vuoto d'aria che si prova prima di un grande salto, qualcosa di intimo che riguarda il performer e lui solo, trasmesso soltanto per contagio, un contagio di artaudiana memoria.
Le uniche parole che pronuncia Andrej sembrano un rimando al Platone della trascendenza: «Io non so disegnare il contorno delle cose», dice, «Non so dove finisce il piede e dove comincia la strada che sta percorrendo». Ecco perché Andrej non può far «restare l'anima della gente dentro la gente», perché la verità sta fuori dalla realtà. L'anima è restituita scenicamente da una lanterna di carta, gonfia della sua stessa aria, come un polmone bianco soffiato verso il cielo. Andrej la tiene per mezzo di un'asticella, mentre attraversa tutta quell'acqua – il fiume – che ha reso ormai scivoloso il rivestimento in gomma della scena. Si concede un ultimo disperato tentativo di elevazione, di raggiungere il trascendente (l'atto della creazione come unica dimostrazione del divino sulla terra), mostrando il dualismo di una mente-anima assediata dall'idea del divino e al tempo stesso corrosa dall'incapacità di comprenderne la forma.
Marzio Badalì