Non tutte le parole nascono per dare un nome alle cose. Se non si mantiene il diritto al segreto – scriveva Deridda – si entra in uno spazio totalitario.
Per l'attore-autore Tino Caspanello, che il teatro lo scrive, lo vive e lo fa, destreggiarsi tra i limiti della definizione è in genere la prova del nove che precede la messinscena del testo. In mezzo ci sono le motivazioni, l'impulso creativo, l'origine, l'andirivieni, il desiderio di dire una certa qual forma di caos senza ingabbiarla in risposte integre e preconfezionate.
Da questo studio il
Teatro di Tino Caspanello ha tratto la sua lingua d'artista, una «drammaturgia del via e vai» che sull'allusione ha costruito un non finito di accenni, parole-ronzio, frammenti, musicalità istantanee.
Sono storie, le sue, incontrate per distrazione, tra i sobborghi della provincia messinese, a Pagliara, sullo Stretto, in una camera, in riva al mare o accecato dalla luce su un balcone di quei luoghi non luoghi della costa siciliana che sono immagine e casa. E fu proprio a
Mari, spettacolo vincitore del Premio Speciale della Giuria del Premio Riccione Teatro 2003, che si deve il suo primo riconoscimento di pubblico e critica, poi edito nel 2005 da Hystrio e tradotto in Francia per Editions Espaces 34.
Già incluso tra le voci più interessanti della nuova scena italiana nella raccolta di Debora Pietrobono
Senza Corpo di Minimum Fax (2009), a poco più di dieci anni dal debutto
Editoria e Spettacolo ha pubblicato nel 2012 una raccolta significativa di testi:
Mari,
Rosa,
'Nta ll'aria,
Malastrada,
Interno,
Sira,
Fragile, complessivamente composti e rappresentati tra il 1994 e il 2009 insieme a Cinzia Muscolino e a Tino Calabrò, la compagnia Pubblico Incanto, con cui nel 2011 Caspanello ha dato vita al festival Pubblico Incanto Artheatre Festival.
A rileggerle oggi cade subito l'occhio su una nota di regia:
Don't explain di Nina Simone, la canzone che conclude
Interno, uno dei suoi primi testi a lungo riposto nel cassetto.
Don't explain, non spiegare. Forse è il silenzio l'ossessione drammaturgica di Tino. Il detto non svela, non conclude, non offre mai la soluzione magica, non è interessante se non si mette la mano nell'acqua.
Ronzii, i suoi botta e risposta rivelano personaggi confusi e sospesi, vittime e carnefici di un gioco provvisorio in partenza. Capita anche che l'ambiguità, ridotta allo spasmo, si mescoli con dell'ironia un po' sinistra, così come accade in
Mari,
Rosa,
Malastrada... per riportarci a terra, non del tutto rassicurati.
Complice qui il dialetto messinese che, per quattro dei sette testi in raccolta, connota tutti trasversalmente, uomini e donne, padri e figli, lavoratori e malati, se di Sicilia o meno è quasi solo un pretesto. Tutti dondolano nel proprio sostare. A noi la responsabilità del discorso, il riempitivo dei vuoti e il piacere indistinto di starsene lì.
da
Mari, in
Teatro di Tino Caspanello, p 25:
«L'uomo: A mmia mmi piaci stari cca, sulu quannu l'autri si nn vannu
La donna: E chi ffai?
L'uomo: Mi piaci
La donna: Ma chi ffai?
L'uomo: Nenti.
La donna: Penzi?
L'uomo: Puru
La donna: E cchi ppenzi?
L'uomo: E cchi nni sacciu!»