Wordstar(s) è il titolo della trilogia teatrale di Vitaliano Trevisan edita da Sironi Editore. Titolo che è un omaggio al glorioso programma di videoscrittura (ormai sepolto dall’oblio della obsolescenza tecnologica) scalzato poi dal Word della Microsoft. Il sottotitolo, "trilogia della memoria", potrebbe rimandare il lettore a un universo semantico popolato da interminabili descrizioni e monologhi interiori che si accendono al profumo di una madeleine, oppure alla persistenza del ricordo civile, al dovere della memoria storica. Invece, niente di tutto questo: la memoria è come l'archivio di un computer, è la memoria a (breve) termine di questi anni di (millantata) fine della storia. Se quel che fonda l’identità è il ricordo, se il soggetto è quel buco, quell’assenza dalla scena per cui è la visione "in soggettiva" la garanzia del fatto che un ricordo ci appartiene, come scrivere nella memoria del contemporaneo?
Come orientarsi nell’ammasso di informazioni stipate in cartelle, sottocartelle, files condivisi con il resto del mondo che paralizzano il racconto per l’eccessivo imbarazzo, l’imbarazzo della scelta ma anche l’imbarazzo di scrutare dallo spioncino della rete nell’intimità dell’altro? Nell’inferno che siamo Vitaliano Trevisan sceglie di affidarsi a tre guide, tre figure, tre Virgilii che tornano incessantemente nella sua opera: Francis Bacon, Thomas Bernard e Samuel Beckett. Di quest’ultimo sono raccontati gli ultimi giorni nell’ultimo dei tre testi, Wordstar (che per assonanza ricorda Worstward Ho, il «rantolo estremo» dell’artista irlandese), un raffinato omaggio teso a costruire la biografia ultima del personaggio Beckett, per riscoprire nei suoi ultimi giorni immaginati quella che fu l’essenza della sua scrittura, l’assenza dal mondo di un soggetto negato, barrato dall'impossibilità di vedere se stesso per “alzarsi e scomparire”. In defrag invece, "dramma da camera per tre signore" come lo definisce lo stesso Trevisan, la scarnificazione testuale di Beckett si cala in un atmosfera à la Bernard, nei tre monologhi intrecciati (che mai divengono dialoghi) della madre e delle due figlie, chiuse in questo interno asfissiante che altro non è che la solita villetta della provincia vicentina. Le tre dame sragionano e si versificano addosso il loro fallimento amoroso, rifrangendosi a loro volta nella figura dell’artista, l’amato asociale, figura spezzata che non può che stonare nel paesaggio industriale veneto. Infine, tornando a ritroso, Scandisk è il testo che, per tema e registro, si discosta (apparentemente) dai successivi: l'autore sceglie un linguaggio che scioglie la lingua italiana in una mimesi del parlato, per raccontare il tentativo di fuga di tre magazzinieri dal rituale ossessivo-compulsivo dell’autosfruttamento lavorativo, cuore e motore del nordest che produce. Trevisan con la propria opera pare voler rinnovare la possibilità di raccontare il mondo (e l'Italia) a teatro, sperimentando nei temi e nel linguaggio (la scelta del verso libero, anarchico e scarno, negli ultimi due testi colpisce come decisione coraggiosa e feconda). E in negativo, dietro tutte le sue opere si scorge di riflesso l’immagine dell’artista che scrive, l’ossessione di un'autobiografia che si nasconde e si cela nelle pieghe dei personaggi, negli autori citati, nell’incessante domanda di un arte che si nutre della continua frustrazione del tentativo di adattarsi al mondo, e diventa necessità. Dopo Beckett, Bernard e Bacon scoviamo l’ultimo specchio, l’immagine riflessa dell’autore Trevisan nel Goldoni delle Memorie citato alla fine del libro, un drammaturgo avvilito di come l’Italia avesse «trascurato» e «imbastardito» l'arte drammatica, un Goldoni percorso dal «desiderio ardente» di portare il suo contributo per risollevarla «al grado delle altre», al livello della drammaturgia europea.