Esordivamo dicendo che le celle dell’alveare sono degli scrigni per il pensiero. Alcuni fili e alcuni nodi sono emersi, certo è che una trama complessiva (come vuole una sezione di questo giornale elettronico) è più azzardato individuarla, un po’ per la naturale parzialità del formato proposto, un po’ marcando la sensazione che l’unico sguardo concesso sia oggi più che mai microscopico, per necessità focalizzato su una complessità di punti che non formano un insieme. Questo è forse il dato che emerge con prepotenza dall'Officina giovani, una fragilità sostanziale che coinvolge tutti i campi della creazione contemporanea emergente, ancora troppo tesa a difendere un territorio (estetico, organizzativo, produttivo) in alcuni casi anche per mancanza di uno sguardo ad ampio raggio. A questo punto, prima di riattraversare per l’ultima volta l’alveare, apriamo un breve inciso di riflessione, nato e cresciuto in questi giorni pratesi fra uno spettacolo e l’altro o in lunghe discussioni fra i pc della redazione.
Una parola per tutte: politica. Quella stessa politica che oggi, per un gruppo dalla breve traiettoria, sembra sempre più argomento tabù, da mettere di lato per non passare per quelli che si lamentano. La naturale oscurità dell'atto creativo, che reclama giusti e necessari momenti di protezione, dovrebbe essere capace di rinnovare il carico semantico di questo concetto, ripensando a una polis trasparente, in cui l’atto estetico torna segno politico sulla base di un comune metodo di apertura verso l'esterno, dal pubblico ai festival, dalle istituzioni alle generazioni precedenti. Forse l'unico che ha rilanciato la questione è stato Roberto Corradino, partendo dall'esigenza di relazionarsi con gli altri “off” dell'alveare, ma la sfida ci sembra abbia trovato poche risposte. Senza una lucida coscienza del territorio che si calpesta, infatti, rimarcare vicinanze linguistiche, per altro tutte da verificare, non può bastare. Va detto, comunque, che centrare il fuoco di un possibile confronto non è esercizio semplice. L'atteggiamento di operatori e istituzioni che si definiscono illuminati, infatti, scivola sempre più verso la lobby o la casta di eletti, contribuendo a deviare la già difficile esposizione all'esterno degli artisti emergenti.
Detto questo, lo sguardo di chi scrive non può che tornare dentro al fuoco vivo del discorso, la creazione, per proporre un’ulteriore lettura degli alveari Off. Ci abbiamo già provato, sostando su concetti come suicidio, autoironia, spazio. Qui ci concentriamo su una parola che diventa già figura nell'atto di nominarla: la donna. Se il modello imperante si desume da una qualsiasi gigantografia pubblicitaria di biancheria intima, dagli alveari possono venire tentativi di costruire altre realtà, altre metafore, altre chiavi per ridotare di senso il corollario di immagini contemporaneo. Vediamone quattro.
Apriamo con Ambra Senatore, la donna di casa, lunghe trecce e rossetto, boule e forchetta pronte per sbattere le uova, musichetta retrò a illuminare alcuni momenti da carosello. Sono solo lacerti, però: prima di impersonare Clerici della situazione, Ambra si muove circospetta, tra il frigo e il tavolo ci sono due metri eppure la distanza si percorre in cinque minuti. Il seno di plastica esplode, inizia una sporca partitura corporea, fino alla frittata finale incollata alla parete. Ambra Senatore è un’artista pop: modelli desunti dal flusso mass-mediologico, replicati con ironia fino spostarli di senso e irriderli. In questo lavoro la critica si avvicina tangenzialmente a ciò che è criticato, e il prodotto finale incontra senza troppi intoppi i favori dello spettatore.
Semiramis dei Menoventi è una donna maledetta, nata da violenza agìta da violenza e destinata a una morte violenta, come recita un muro sporcato dal rossetto che in questo giornale abbiamo ricollegato all’Amleto della Socìetas. Siamo forse dentro a un manicomio, ci sono specchi ed echi che rimandano la realtà allucinata della donna, e c’è un grande meccanismo che la costringe alla ripetizione. Lei, però, costruisce un’altra realtà: Müller aveva tentato di proporre la donna come portatrice di una possibile inversione dell’ordine tragico, salvo poi disegnare una Ofelia con un ticchettante orologio molto simile a una bomba al posto del cuore. Gianni Farina e Consuelo Battiston, in un lavoro che dovrà essere rivisto, messo a fuoco, capito anche da loro stessi, sembrano invece farci credere che l’inversione è possibile, e che sia la donna vessata per eccellenza ad attuarla. Sappiamo che Semiramide s'illude, gioca con gli specchi. Vediamo che Semiramide conferisce all’immagine riflessa la stessa consistenza della realtà, e come Alice pensa allo specchio come qualcosa da attraversare. Ci rendiamo infine conto di essere a teatro, di fronte a immagini fittizie che credono in echi fittizi e il cortocircuito s’innesca insieme al dubbio che Müller si sbagliasse.
Silvia Rampelli da anni sembra interrogarsi su una figura femminile spezzata, un po’ come si spezzava l’unità della figura nelle tele cubiste o da un'altra prospettiva nel lacerante figurale di Bacon. Forse la sua scomposizione è un processo, un lento progredire verso un’altra rappresentazione, riunificata sotto altre basi. Il corpo nudo di Alessandra Cristiani ha la potenza del marmo classico, puro volume sottoposto a strutturazioni dall’andamento ritmico. Un corpo che solo apparentemente sembra vuoto, che è teso nello sforzo sportivo, con muscoli contratti e gambe allungate che formano un arco con gli arti superiori che appoggiano a terra. Si finisce con una medaglia olimpionica al petto, di una disciplina che forse deve ancora essere inventata. Il Sex appeal dell’inorganico per Mario Perniola sembra essere proprio questo: un corpo androgino, non vuoto ma poroso, in cui la soluzione di continuità fra dentro/fuori, maschio/femmina, pieno/vuoto si diluisce nel tempo di una performance della durata indefinita, che pensa ci guarda ci giudica prima che noi abbiamo il tempo di aprire gli occhi sull’incendio che sta dietro al sipario.
Non ci sono invece appigli teorici per interpretare Freezy, cameriera inglese dalla voce in falsetto vestita di grembiule che evidenzia la mutanda sul gluteo. O meglio, tutti gli appigli possibili finirebbero per perdersi nel flusso decostruzionista di Antonio Tagliarini, che immaginiamo l'abbia pensata bene: mettersi al riparo dalle interpretazioni critiche. Freezy in effetti non è Antonio Tagliarini. È una donna frivola, che cammina tra piramidi e tour eiffel chiedendo allo spettatore di fotografarla e di ucciderla con una pistola ad acqua, dopo essersi procurata appuntamenti al buio da un numero trovato sul muro di un cesso. Uno nessuno e centomila, compresa La dolce vita di Anita Ekberg evocata nei venti secondi di un'inflessione vocale. Freezy forse ce l’ha con Debord: per lei il bombardamento semiotico non porta a un grado zero della comunicazione ma è l’unica strada, quella conosciuta da tutti. Se dunque eccediamo nell’eccesso chissà che non resti sul fondo qualche resto ancora utile, come un pesce impigliato in una rete vuota che aspetta di essere liberato. È superfluo dire che non può darsi l'etichettatura di tali lacerti. Freezy non sarebbe d’accordo, le metterebbe in una delle sue performance in cui telefona ad Antonio Tagliarini chiedendo qualche idea da sviluppare in scena. Meglio allora lasciarli sottotraccia, questi residui di senso. Che siano quelli di Freezy o degli altri lavori visti a Contemporanea poco importa, da ora in avanti siamo tutti chiamati a rifare i conti con un’altra parola troppo spesso svuotata: responsabilità. Solo così possiamo metterci in gioco, sostenere la fragilità, riconoscere nel poco l'idea di futuro. Quel dovere definitivo che punta a riconoscere nell'inferno ciò che inferno non è per dargli forza è ora più che mai un riverbero da recuperare, altre strade non ne vediamo. Forse non è più tempo di aspettare che la marea sia passata. Perché forse neanche allora potremo voltarci a guardare: gli occhi di Freezy e di chi s'interroga stando nello spirito dei tempi saranno sempre un po’ più in là, né prima né dopo, vicinissimi e mai rintracciabili.
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