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ARTICOLI E RECENSIONI > Di fronte al dolore degli altri, e al nostro. In fondo agli occhi di Berardi/Casolari e Brie

Non è edificante, non denuncia, non mostra soluzioni buone per tutte le stagioni. In fondo agli occhi di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, con la regia di César Brie, è un'incrinatura mascherata da ritratto della nostra penisola.
Il piccolo palco del TeTe Teatro Tempio di Modena, dove lo spettacolo ha debuttato in occasione del festival Vie 2013, è l'interno di un bar in cui la barista Italia e il cieco Tiresia dibattono sul presente. Per connotare lo spazio bastano una serpentina di neon colorati che scendono dal soffito, qualche sedia, un tavolino. Ma lo spettacolo da subito c'invita a cercare oltre il visibile, o almeno a mettere in discussione quello che pensiamo di vedere o sentire. Per oltre due anni Berardi e Casolari hanno raccolto voci e storie lungo la penisola per poi impastarle con la loro storia personale. Ma non ci si aspetti di ascoltare solo gli aneddoti da Bar Sport filtrati dalla biografia dei due artisti. In gioco c'è infatti da subito un rapporto con lo spettatore non pacificato, nel quale l'attore pugliese interrompe un andamento rappresentativo per scendere in platea e rivolgersi al pubblico. In discussione è dunque l'affidabilità stessa di una finzione che non è mai solamente finta, e che costringe chi guarda a uno stato di sospetto, di fertile domanda.
Prima ancora di presentarsi, Tiresia ci accoglie con un rap, si butta fra le poltrone e c'invita a battere le mani e insultarlo: «Cieco di merda, diceva la mia mamma! Cieco di merda, diceva il mio papà! […] Quando vi capita più una occasione così, insultatemi!». Fra i presenti monta lo sconcerto, poi iniziamo a stare al gioco, qualcuno mormora e infine ci si abbandona al grido.


ph Chiara Ferrin, Vie Festival 2013

Berardi/Tiresia torna sul palco e prende a chiacchierare con Italia, insieme avanzano portando in proscenio pezzi di vestiario, accennando alle biografie dei frequentatori del bar: gente che è morta ammazzatta in guerre lontane dall'Italia, gente che ha ucciso i propri famigliari, persone comuni che lanciano freddure mentre risuona Va, Pensiero: «In Italia, anche per essere mediocri ci vuole talento».
Tiresia viene accudito da Italia: mentre parlano, lei lo adagia sulle ginocchia e gli cosparge il posteriore col talco; più avanti, quando racconterà di essere stata abbandonata dal marito per una donna più giovane, Italia taglierà un cocomero costringendo l'uomo a ingurgitarne fetta su fetta. Lei si dice stanca: la sua vita precedente si è interrotta quando ha scelto di seguire questo Tiresia/Berardi per fare teatro, o per tenere aperto un bar dove non va più nessuno. «Ditemi, è democrazia questa?», chiede Berardi. Come ribellarsi, come continuare? Dal fiume di parole dell'attore emergono alcune opzioni, riportate senza sottoporle a giudizio: fondare un partito, buttare bombe. Berardi scende nuovamente in platea e chiede se sia presente una donna incinta, qualcuna che abbia avuto il coraggio di fare un figlio. Una ragazza alza la mano ed è condotta sul palco, dove viene sommersa di domande. La donna risponde a fatica così l'attore inizia a urlare appicicandosi alla sua pancia, pensando di avvertire il nascituro sul fatto che sarà molto dura, consigliandogli di fare il calciatore...

Non è facile parlare di In fondo agli occhi. Al debutto, infatti, i nodi delle maglie della scrittura di scena risultano forse ancora troppo “nudi”, e quella scorrevolezza che li renda invisibili si dovrà trovare con le repliche. Ma non è facile soprattutto perché si sarebbe tentati di fermare ogni descrizione per abbandonarsi alla malia di Gianfranco Berardi. Ogni cosa, compresa una cronaca, corre infatti il rischio di servire da spalla a un modo di essere attore strabordante. Berardi non rappresenta ma presenta, non recita ma è, facile uscirne annichiliti. Berardi usa il pubblico come fosse un pezzo del suo disegno d'attore, spazzando via con un soffio i meccanismi inventati da molti per trasformare la forma artistica in estetica relazionale. Come bevesse un bicchier d'acqua, Berardi scende dal palco, parla col pubblico, lo insulta e lo porta in scena, senza mai diventare totalmente né un attore che rompe la quarta parete né personaggio che ne sposta i confini. Quella linea dell'attore comico che per Marco De Marinis ha lavorato ai fianchi della tradizione recitativa ufficiale lungo tutto il novecento, pare qui riemergere nel lavoro di uno del solisti poliformi più soprendenti che il teatro italiano ci abbia dato negli ultimi anni. Le caratteristiche individuate da De Marinis (una solitudine scenica e culturale, il procedere costruendosi una “autotradizione”, una vocazione plurilinguistica che mescola alto e basso, una tensione carnevalesca e irrisoria e un rapporto mai garantito con lo spettatore) sembrano adattarsi perfettamente al percorso dell'attore e autore pugliese, sebbene questo non possa fare a meno del cesello non solo drammaturgico di Gabriella Casolari e si nutra ora di un'architettura registica che non è mai semplice cura della confezione. Berardi è solo sulla scena anche quando al suo fianco ci sono altri attori (in questo lavoro e nel precedente Land Lover). È solitario rispetto a un sistema teatrale ufficiale che ignora lui come tanti altri artisti della ricerca; ma è appartato anche rispetto a un ambiente della ricerca che in qualche misura gli sta stretto, avendo da subito tentato di romperne i confini, avendo voluto fare spettacoli ovunque (circoli, piazze, teatri), non avendo mai mascherato un certo gusto popolare, una tensione a rivolgersi al più alto numero di persone possibile utilizzando riferimenti tic e battute prelevati dagli orizzonti del più alto numero di persone possibile (cultura di massa, la si sarebbe detta un tempo). Sul resto resta poco da aggiungere: partendo da Petrolini e passando per Leo De Berardinis, parrebbe proprio di poter arrivare a Berardi, che dichiara di amare Carmelo Bene ma anche le rockstar, che si prende gioco di tutto e di tutti, partendo da se stesso (di nuovo rivolto al pubblico: «Vuoi uccidere il tuo vicino? Ti commuovi guardando le fiction? Dillo!», salvo poi affermare, fra le righe, che «Abbiamo perso tutti») e che infila una serie di gag che corrodono sottilmente qualunque dichiarazione di principio, salvando la morale dal moralismo («Vuoi venire fuori da tunnel e non ci riesci? Arredalo!»). Volendo azzardare somiglianze, queste sarebbero da cercare nella musica, più che nelle scene nostre contemporanee. Non fosse il teatro frequentato da pochi, Berardi sarebbe il corrispettivo di alcune popstar che sembrano restare aderenti ai loro punti di partenza (nel racconto dell'oggi, nell'immagine che di sé si vuol dare) pur essendo arrivate a parlare a tanti pubblici, dunque a più livelli: da Fabri Fibra a Caparezza.


ph Chiara Ferrin, Vie Festival 2013

L'attore non è nient'altro che la propria autobiografia, diceva Leo. E qui la cecità, la necessità di avere qualcuno che lo accudisca e che lo ami, il rapporto con un padre che piange dopo avere scoperto la malattia del figlio sono tutti elementi che entrano nel racconto, aumentandone la complessità. In fondo agli occhi confonde volutamente il piano della finzione con quello dell'autobiografia, complice certamente uno sguardo registico esterno che, alla maniera di Brie, diventa domanda da porre dentro, all'origine delle immagini che produce la scena o alla sorgente dei racconti drammaturgici che il palco è chiamato a mettere in vita. Una marcetta da destra a sinistra del palco sostiene un battibecco fra i due, quando raccontano delle difficoltà del vivere insieme; una benda che l'attore si arrotola intorno al capo diviene laccio che occlude la bocca, mentre si narra di un adolescente che non vuole mangiare. L'autobiografia diventa sì un modo per non barare, per stare attaccati a quello che si è, ma anche il suo opposto; autobiografico è ciò che serve il racconto, è lo scarto che lo mette al riparo dal pietismo, è una sviolinata sulla tenerezza e sulla bellezza della propria compagna che termina in «Come farai quando io mi innamorerò di una più giovane di te?»

Si era partiti dicendo che In fondo agli occhi non fa prediche, non si dichiara assolto, non denuncia dal piedistallo di chi ha capito tutto e insegna come fare. Al contrario, si mette dalla parte del “marcio”. Parlare dell'Italia oggi è infatti esercizio complesso, soprattutto perchè siamo tutti pronti a smascherare i mali del paese senza addossarci alcuna colpa. Se ci si trova a parlare dall'alto, è molto facile dire quanto in basso sia caduto il popolo. A volte si rimarca la necessità che i figli uccidano i padri, salvo poi accorgersi che chi sta parlando, oltre a essere un padre, non ha nessuna intenzione di farsi da parte. Spesso si evidenzia la violenza televisiva e la corruzione del linguaggio massmediatico restando però invischiati nello stesso linguaggio che si vorrebbe criticare. Altre volte si risulta credibili nel fotografare un paese “storto”, ma ci si inceppa poco prima di arrivare a una proposta. In fondo agli occhi invece una proposta la tenta, e su questa si potrebbe discutere. Dopo che le candeline di una torta di compleanno sono state accese, l'attore dichiara di voler rinunciare a compromessi e lamentele, di rifiutare ansie di possesso e giustificazioni, ma anche a molte altre cose, quelle che solitamente ci permettono di mitigare la distanza fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. L'attore si guarda dentro e quello che trova non lo rassicura, eppure ce lo racconta. Verrebbe ora da domandarsi se questo partire dalla propria crisi e malattia sia davvero l'unica proposta che resta, dopo decenni di individualismo spinto. Sembrerebbe poco, data l'urgenza di tornare a immaginare qualche “noi”. È invece tantissimo, perchè non si da “noi” che al suo interno non coltivi degli “io” feroci, ironici, disperati, disincantati.


di Lorenzo Donati
 

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