Per We-Go avete adottato una modalità operativa quanto mai particolare…
Benjamin Vandewalle: In We-go, così come nel progetto Unspoken a cui stiamo attualmente lavorando, c’è stata la scelta precisa di amputare la comunicazione verbale. Tutto quello che è accaduto è accaduto attraverso i nostri corpi.
Vincenzo Carta: Questo è in linea con la nostra idea di danza, in cui cerchiamo dei contenuti che nascano dal corpo e non in una dimensione intellettuale altra a cui il corpo si debba poi asservire. La modalità di lavoro scelta per We-go ha rivelato anche un contenuto fortemente politico, ovvero l’avverare un incontro attraverso il fare, trovare un denominatore possibile, una base comune tra noi e le nostre pratiche.
B.V: Infatti era permesso cambiare la situazione o influenzare il lavoro dell’altro solo attraverso il movimento e l’azione, senza parole. Vi è la ricerca dello stare in contatto con l’altro, che significa anche assecondarlo, aiutarlo o proporre qualcosa di diverso quando la direzione imboccata non sembra convincente. Insistendo su questa forma di comunicazione non verbale abbiamo scoperto che si viene a creare una comunicazione incentrata sulla presenza e sull’azione che ci fa entrare in uno stato di coscienza particolare.
Alla base di We-go c’è anche un’indagine della dimensione rituale…
B.V: Sì, ma di nuovo è l’angolazione che è differente: ci si propone di creare il rituale, non di rappresentarlo. All’inizio c’era molto materiale, sperimentavamo alcuni movimenti di trance sulla musica facendo veramente di tutto, anche la danza africana! A un certo punto, come accade durante il lavoro fisico anche solo per riposarsi, abbiamo lavorato sulla camminata ma, trovandoci nello spazio limitato di uno studio, questa non poteva che assumere la forma circolare. In quel momento si è veramente avverata la possibilità di un dialogo fra i nostri due corpi, e solo una volta scoperta l’azione abbiamo iniziato a comprendere cosa potesse diventare. In seguito è emersa la dinamica di rotazioni e pian piano abbiamo eliminato tutto ciò che non era necessario. Quel che è rimasto è un lavoro sulla ripetizione e sulla metamorfosi del movimento attraverso di essa, e questo meccanismo è per noi il varco di uno stato mentale particolare, di iperconcentrazione. Diventa trance nello stesso modo in cui lo può essere il ballo nei rave, quando si continua a danzare per ore.
V.C: È importante capire che noi utilizziamo questo stato di coscienza particolare per creare una composizione visiva. Non stiamo rappresentando due corpi in estasi mistica, ma dispieghiamo un processo per mettere in atto un’esperienza visivo-sensoriale di cui lo stato “alterato” di noi performer è solo uno strumento. L’indagine sul rituale come forma partecipativa per il pubblico si rivela quindi nella creazione di uno spazio-tempo particolare, totalmente estraneo alla dimensione quotidiana.
B.V. Questo accade ogni volta che rappresentiamo We-go. Entriamo nel nostro stato di coscienza durante ogni performance. Non si tratta quindi banalmente di ripetere una forma, ma di vivere un’esperienza. Ed è dall’esperienza di questo stato che scaturisce la forma.
Voi siete uno dei gruppi ospiti estranei al nucleo fondativo di Ipercorpo. Come è nata la partecipazione al festival?
V.C: Abbiamo avuto modo di conoscere Claudio Angelini e la ricerca che porta avanti con Città di Ebla a Mondaino, in occasione del progetto di residenza Aksè. Ci siamo piaciuti sia da un punto di vista artistico che di rigore concettuale nella ricerca, cosa che ci ha fatto accettare il suo invito a Ipercorpo con entusiasmo.
B.V: Siamo tutti “gruppi giovani” o per meglio dire dei creatori alle prime prove, e condividiamo uno stesso disaccordo, una vera e propria lontananza dallo stato di cose attuali nel teatro e nelle sue politiche.