Le creazioni del duo italo-belga Vincenzo Carta e Benjamin Vandewalle sono un luogo di interrogazione dei paradigmi della rappresentazione che consuma l’azione performativa su di un piano essenzialmente percettivo posizionando lo spettatore di fronte a un corpo scritto nello spazio. I lavori del duo formatosi a Pars e in un pieno di esperienze europee, non mostrano una vera e propria scrittura coreografica, ma fanno sì che il corpo, non un luogo di scrittura, sia piuttosto il fatto stesso che si scrive. We-go – creazione nata nel 2005 che ha dato il nome alla formazione – è proprio un dispositivo analogico della visione che fa del corpo la propria scrittura. Due figure nello spazio vuoto, bianco. Non parlano. Stanno in contatto senza toccarsi. Nessuna traccia sonora. Solo il ritmo vagamente militare dei passi e l’eco ottuso dello strofinio di lunghe gonne nere. I corpi si spaziano agendo una sintassi basica che fa uso di tutte le figure di ripetizione. Il loro gesto performativo si configura come una serie di algoritmi iterati in traiettorie circolari in cui sperimentare la funzionalità dei nessi di relazione tra i corpi come ascolto a distanza. Dentro questi moti di rotazione e di rivoluzione compiuti dalle figure si genera via via un dinamismo dello sguardo che trasforma il luogo della rappresentazione in un campo di tensioni centripete e centrifughe.
L’occhio dello spettatore è indotto in quel gioco dell’iterazione simultanea dei corpi, nei minimi sfasamenti della sincronia come in un viaggio sensoriale che si colloca nella frizione tra la forza d’inerzia che induce alla rotazione continua e l’impeto di rottura e di trasformazione della stessa che innesca processi di modificazione ritmica nella partitura rotante. We-go finisce così per disciplinare il tempo in un’apnea percettiva che ci spinge, bramosi cacciatori di omologie e analogie, a porre un legame più che occasionale con le tecniche sufi. Sebbene i due artisti utilizzino i meccanismi iterativi propri di certe pratiche rituali, il richiamo così ortodosso nell’immaginario allo stato di trance, ma così eretico nelle premesse ideative colloca questi novelli whiriling dentro uno spazio assolutamente laico e artificiale. Le traiettorie circolari, ellittiche si spezzano, l’andatura si normalizza in linee oblique, ma d’improvviso il ritmo si riassesta per tempi ed intensità nei modi di quell’atto motorio ciclico che implica costanza e plasticità, permanenza e mutamento in un effetto cumulativo che porta lo spettatore come a girare egli stesso, in una cornice di luce che progressivamente e quasi impercettibile aumenta fino al suo apice.
Ma un altro aspetto va preso in considerazione della ricerca di Carta e Vandewalle che colloca sulla stessa scia We-go e Unspoken, la nuova creazione di cui si è visto un primissimo studio nella scorsa edizione del festival di Santarcangelo. È la modalità relativa alla creazione stessa dell’opera che nasce in assenza di comunicazione verbale tra i due performer. Si tratta di un modo radicale per investigare un grado zero della comunicazione fisica, una volta posto in epokè il proprio agire si è costretti alla ricerca di un equilibrio altro di forme e forze.