WBNR: Platform #1 – London è la prima forma visibile (qualcosa di diverso da una tappa, uno stadio evolutivo o uno studio) di un progetto ambizioso e complesso, dal titolo complessivo di What burns never returns, che Alessandro Carboni, coreografo e performer attivo nel gruppo Ooffouro, sta conducendo insieme a diversi interpreti e collaboratori.
Non si tratta di una scelta metodologica casuale, soprattutto nella prospettiva di ricerca di Offouro, che da diversi anni ha fatto della processualità, dello spiazzamento e della continua ridefinizione di griglie metodologiche una pratica di lavoro e si direbbe una vera e propria filosofia, o poetica, della scena. Ciò che interessa al gruppo sardo – attivo ora a Londra, con progetti di ricerca che l’hanno portato negli ultimi anni a periodi di lavoro in Polonia, Repubblica Ceca, Olanda, India e Cina – è proprio la processualità come forma instabile di relazione con il senso, e anche come caratteristica fondante del movimento, del corpo e della natura della scena come luogo in cui, appunto, tutto “brucia”, e non potrà quindi ritornare mai.
Titolare in questo modo un progetto di ricerca, perdipiù il primo condiviso con un numero significativo di collaboratori, tra interpreti, artisti, esperti di tecnologie e ricercatori, pone da subito l’orizzonte sull’impossibile, scaraventa in una vertigine di senso senza fine in cui opera il paradosso: è nella natura di questa ricerca bruciare e bruciarsi, consumarsi, non potersi ripetere né arrestare, avere un tempo esatto ma ancora sconosciuto di sviluppo, non sapersi fissare in forma ma lasciare tutt’al più qualche nera traccia inerte dietro di sé.
Tale prospettiva, se insostenibile (fertilmente insostenibile, è chiaro) per chi la conduce e per i suoi oggetti/soggetti (i corpi degli interpreti appunto) è invece per lo spettatore un invito alla riconquista di una propensione attiva e anzi creativa nel confronto dell’opera: ciò che accade si consuma qui, adesso. Ci confrontiamo con l’instabiltà di ogni processo vivente, con le contraddizioni concettuali su cui si fondano le nostre vie e le nostre città, con parole semplici e complesse come “spazio” e “paesaggio”, declinato ques’ultimo in “bodyscape”, “scenescape” e cityscape”, in un progressivo allargamento semantico della prozione di territorio analizzato, dal corpo umano (individuo, soggettività, uno) al corpo della città (collettività, pluralità/relatività, molti).
Lo spettatore è invitato a condividere un’esplorazione di questioni più che una sfilata di affermazioni; a prendere parte a un tassello di una ricerca densa di echi non solo artistici, ma profondamente intrisa di inquietudini ed esperienze personali (a partire dal recente viaggio in Cina di Alessandro Carboni, di cui molto si è nutrito il periodo di lavoro londinese), e anche di un confronto con alcuni temi di fondo della società contemporanea, che possiamo tentare di riassumere in alcuni binomi quali pieno/vuoto, corpo/paesaggio, errore/caduta, assenza/vertigine (termini che peraltro si potrebbero ricombinare tra di loro in altre coppie di significato).
Altri concetti-chiave chiave sono il rapporto tra la presenza individuale e lo spazio (vuoto o collettivo), rapporto rerso tanto più ricco di sfumature dal fatto che gli interpreti coinvolti saranno diversi per ogni tappa di lavoro; la fragilità del singolo e lo spaesamento di qualsiasi struttura di senso; l’elaborazione di un sistema di lavoro che sappia generare o integrare anche concetti in grado di “intaccarlo”.
Siamo partiti dal processo e al processo torniamo: è il metodo, la griglia, il sistema a costituire – anche grazie alle sue fragilità e alle sue faglie – l’oggetto di una ricerca scenica che si pone obiettivi ambiziosi e si direbbe universali, poiché si pensa non già come opera teatrale (e men che meno, questo è chiaro, come “spettacolo”), ma come utensile, dispositivo di combattimento con un senso sempre afferrato e sempre rimesso in gioco. Una prassi “eretica” dell’abitare la scena, nel senso proprio dell’eria come scelta, presa di direzione, saldo attaccamento a una posizione.
E con le eresie – della cultura, del pensiero, dell sguardo – è sempre affascinante confrontarsi, tanto più quando si offrono come meccanismi aperti che chiedono di essere decifrati e poi ricomposti dallo spettatore.