Dal buio provengono note ruvide, a tratti cupe, che pure non rinunciano a ordinare la miriade di imput sonori che ci circondano. Una radiolina, alcuni registratori a cassetta, un ventilatore tascabile e una chitarra elettrica. Gli ambienti di Stefano Pilia sembrano provenire da qualche segnale d’oltreoceano captato da un radiomamatore, come il sottofondo continuo di una bulimica metropoli del sud del mondo. Ideale controcanto della serata è la performance dei Cosmesi, giacchè nel nostro occidente ovattato l’unico malessere possibile sembra il mal de vivre di una avvenente bionda, che passa da una canzonetta al suicidio nel tempo di un «Sì, viaggiare». Ecco allora materializzarsi il maligno eroe da cartone animato, segno di un vortice d’immaginazione cui i Cosmesi indulgono volentieri, forse raro territorio in grado di parlare all’oggi conservando un qualche pudore. Non sarà quindi un caso il cortocircuito dei Santasangre: dalla fantascienza storica che immaginava il Mondo Nuovo (Huxley), si torna al qui ed ora della rappresentazione che per immaginare il presente (Santasangre) abbisogna di visioni del passato. L’intermezzo prima dell’incipit si chiama Agf: nascosta dietro al suo computer con l’immancabile mela (icona del nostro presente-presente), le gibbosità elettroniche della musicista berlinese non concedono mai spiragli a una qualche melodia (segno del nostro presente-presente). Dunque ripartiamo da Antonio Latella e dalla sua Medea, con la necessità di abbandonare il racconto verbale. Non di essenza, però, bisogna parlare, ma di rarefazione: i segni ci sono ma in esigua misura, isolati, illuminati. Lo scheletro di un letto, da smontare e riassemblare, o talamo o prigione. Tante maschere di lattice, costumi che sbuffano, lembi che coprono, avvolgono, legano. E poi il corpo, il suo suono, il suo sudore.