C'era una volta un piccolo festival nella provincia romagnola, terra già di altre ondate e fermenti delle scena sperimentale. Per arrivare ai magazzini Interstock da Forlì bisogna prendere la via dei monti, preannuncio di quel passo che conduce a Firenze e che si chiama “Muraglione”, fatto di curve tortuose e ripide salite un po' come i teatri visti a Ipercorpo. A noi che spesso cerchiamo e abbiamo cercato di porci dal punto di vista dello spettatore, un dato comune ad alcuni di questi lavori (e ad altri di quello che si definisce “teatro emergente”) sembra essere una precisa domanda rivolta a chi guarda: mai di visione pacificata si tratta, mai di intrattenimento, ma di assunzione di responsabilità di fronte a oggetti spettacolari non trasparenti, che invocano uno spiccato investimento fruitivo.
C'era una volta una piccola rassegna, sette lavori teatrali e altri numerosi appuntamenti musicali. Metafore epistemologiche, gnoseologie alternative, altre possibilità di mondo. Da qui forse bisogna ripartire per trovare un senso per le arti sceniche odierne, oggetti complessi in quel senso alto che dava alla parola Italo Calvino: spettacoli come enciclopedie, strumenti di conoscenza, metodi di connessione fra i fatti, le persone, le cose, fuori dal mondo ma capaci di farvi ritorno.
C'era una volta un piccolo network di cinque compagnie, che è anche indagine su scottanti problemi di politica culturale, che si reinventa assumendo il rischio di proclamare nuove ondate, che autodetermina occasioni di incontro, circuitazione, dialogo. Se fossimo nel mondo reale (leggi un sistema non impermeabile al nuovo) questo potrebbe bastare. E anche nella nostra realtà usurata un tentativo del genere non può che essere seguito con il massimo interesse. Ma proprio perchè partiamo tutti, nessuno escluso, dall'impoverimento e dalla macerie, non bisogna smettere di alzare il tiro, creando pratiche veramente condivise, pretendendo molto forse proprio in quei rari e illuminati casi che permettono di farlo. Come si diceva insieme ai direttori artistici in una conversazione di fine festival, è forse giunto il momento di iniziare a dire dei no: le compagnie, i non molti operatori illuminati, gli altrettanto pochi critici appassionati. No a chi potrebbe invertire la rotta ma per pigrizia e scarsa applicazione perpetra gli stessi “mortali” meccanismi. No a chi perde di vista la poesia e la “demenza” (Mariangela Gualtieri) di fronte agli imperativi della merce e della burocrazia culturale. No a chi si professa attento alla cultura e come massimo ideale scioglie il sacro dell'arte nei flussi delle notti bianche. Dopo queste negazioni, ammesso ci sia qualcuno ancora disposto, si faccia la conta dei sopravvissuti e da lì si ricominci.