Anime nere è il frutto di un percorso di laboratori e spettacoli lungo oltre un anno. Si tratta di una modalità di lavoro tipica di tutti i suoi spettacoli?
Anime nere nasce dalla tentazione di un autore napoletano, Giuseppe Montesano. Ci sono state alcune tappe di avvicinamento, periodi di lavoro fatti a Castiglioncello, Prato e Scampia, in cui ho lavorato con la mia compagnia e con attori del territorio. Le tappe precedenti prendevano le mosse dalla fascinazione per i luoghi in cui sono nate, come il Castello Pasquini di Castiglioncello. Ho deciso di affrontare il romanzo di Montesano, Di questa vita menzognera, con calma. Non mi piace chiamarli studi, termine troppo abusato. Si è trattato di accumulare materiali ed esporli in rapporto a un luogo. Infine sono tornato al teatro, dal “fuori” alla sala, dunque. Questo procedimento è ritornato varie volte nel mio percorso: da Trageddia 'a mmare è nato Eidos, da Terra sventrata è nato Polveri, da Ubu Scurnacchiato sono arrivato a Ubu u Pazz. Il teatro è un luogo obbligato, ma non in senso dispregiativo. In tutti questi casi sono partito da un luogo esterno, al quale è necessario togliere l'identità del quotidiano. Il luogo fa scattare una situazione, la quale poi solitamente richiede di tornare alla sala teatrale.
Di questa vita menzognera parla di una Napoli immaginata in cui i cittadini si mettono in vendita come attrazioni turistiche. A spadroneggiare c'è la famiglia Negromonte, disposta a tutto pur di accumulare ricchezza. Siamo noi questi Negromonte?
Posso dire che i Negromonte, nel mio spettacolo “Belmonte”, sono sempre di più. Stanno occupando tante parti d'Italia, d'Europa, dell'Occidente. Sono figure che vediamo in giro tutti i giorni, che ostentano la loro cinica identità e una precisa concezione del mondo. Nelle tappe precedenti, mi è capitato che qualcuno mi venisse a dire « Quello è proprio un Belmonte».
A differenza spettacoli passati, qui lei fa i conti con un testo contemporaneo, quasi a voler ribadire la necessità di guardare in faccia il presente...
Sì, è vero. Dopo tanti anni mi sono chiesto quale fosse la direzione che stavo prendendo. Sono tre le linee che percorro: una legata all'emergenza e alla necessità, l'altra riconducibile a tentazioni di mondi e autori, un terza infine più vicina ai testi. In Anime Nere intravedo entrambi i primi percorsi. Devo però dire che in questo testo ci sono anche i miei amori, Shakespeare, Buchner, Cervantes, Dostoevskij.. si tratta di un eterno ritorno di figure universali che mi accompagnano da quando faccio teatro.
Come interviene il suo occhio di regista e autore nel rapporto con un gruppo di attori così maturo dal punto di vista della ricerca personale?
Lavoro molto utilizzando una scrittura che nasce sul palcoscenico durante le prove, e che si nutre spesso di poche ma incisive immagini di partenza. Penso che l'attore debba portare nello spettacolo il suo mondo, e non solamente eseguire delle consegne. Non lavoro sul personaggio, non mi interessa una precisa e netta caratterizzazione. Il personaggio scritto per il teatro deve servire l'attore, e non viceversa. Mi piace partire dall'ombra di un personaggio, per poi arrivare alla creatura scenica. Forse è bene parlare di “identità drammatiche”, in cui sono adombrate anche di quelle “creature eterne” che dicevamo prima.
Cosa vuol dire, oggi, interrogarsi sul rapporto fra teatro e società?
Prima di tutto fare in modo che il teatro si sganci dalla politica. La politica ormai decide delle direzioni generali delle arti sceniche. La maggioranza assoluta delle persone è preoccupata del consenso e dal numero di abbonamenti. Il centrosinistra è stato il primo a introdurre il concetto di quantità. Io credo che, nonostante tutto, il teatro sia un'arena non pacificata che poco ha che fare con i numeri e con i generi. Il teatro crea mondi che provano a dire delle cose sul mondo che li circonda.
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