INTERVISTE > Intervista a Sandokan, Giovanni Guerrieri dei Sacchi di Sabbia
I sacchi di sabbia sono una formazione pisana che ama cambiare le carte in tavola. Transitati nei territori del comico almeno a partire dalla “trilogia sul quotidiano” (Orfeo del 2002, g del 2003, Tràgos
del 2004), Turma infantium suite e l’ultimo 1939 potevano spaesare per la rara capacità di ripensare un linguaggio, adattandolo e “sacrificandolo” in base alle esigenze del lavoro. Incontriamo Giovanni Guerrieri sulle scale assolate di fronte al Ridotto de la Città del Teatro, perdendoci insieme a lui sul significato di quotidiano ed evasione, sostando sugli argini di un inflessione toscana che raccoglie il pudore e la consapevolezza tipica dei grandi teatranti.
Come nasce Sandokan?
Sandokan s’inserisce in un lungo discorso sul quotidiano che portiamo avanti almeno dal 2002, e prova ad arrivare a una sintesi suprema fra due linee che vogliamo indagare: da un lato le cose piccole di tutti i giorni, dall’altro le grandi passioni, le avventure, gli eroi. Si tratta di due versanti che accostiamo ben consapevoli della contraddizione che portano, e che non vogliamo sanare.
Rispettiamo quasi integralmente il testo di Salgari, Le tigri di Mompracem, e ovviamente ci riferiamo allo sceneggiato televisivo diretto da Sollima. Il nostro Sandokan si palesa in cucina, dove quattro persone tagliano delle verdure. Proviamo a passare dall’epica salgariana al quotidiano, evitando di mettere in campo un giudizio. Sandokan può “farsi vedere” tra patate e mezzelune? É la nostra scommessa. Non vogliamo truccare la situazione, ma proprio stare ancorati ad essa. Il quotidiano di Sandokan, rispetto per esempio a Tragòs, non è affannato e pesante. Siamo noi in cucina, siamo quattro che si fà la minestra...
Il vostro teatro mostra una ricerca sul comico molto profonda, con lati certamente anche più diretti e immediati. Come conciliate questo aspetto con l'anima di lavori come 1939, in cui c'è rimasto poco o nulla da ridere?
Siamo partiti facendo cabaret, il nostro è un approccio molto popolare, è un linguaggio che sfrutta “tempi” molto evidenti. Se questa assunzione di metodo bastasse sarebbe perfetto, il “problema” è che più affondi in un linguaggio più questo muta. Una forma, più la lavori, più si destabilizza. In Orfeo, per esempio, lavoravamo sulla non chiusura delle gag. Qualcuno è venuto da noi accusandoci di avere promesso una risata che poi non arrivava. É una questione che si fatica a premeditare.
Siete un gruppo che lavora insieme da parecchi anni. Avete un modo preciso di approcciare la creazione?
Penso che ci contraddistingua la necessità di dare continuità al lavoro. Procediamo per fasi di sedimentazione, si inizia vedendosi due o tre volte alla settimana, per arrivare all’immersione precedente ai debutti. Discutiamo molto, spesso anche non di teatro, come se fossimo a un dopolavoro ferroviario! Di solito c’è un primo slancio che dipende da me, poi si arriva a una prima stesura che lavoriamo tutti insieme in scena. Va detto che non firmo le regie, piuttosto preferisco segnalare la mia cura sulla “scrittura scenica”. Nel caso di Sandokan, ci siamo ovviamente confrontati con la saga di Salgari e con lo sceneggiato televisivo. Ci siamo poi imbattuti in una versione teatrale di Aldo Trionfo, che ci è servita molto come raffronto. Ugo Gregoretti, infine, mise a confronto le pagine di politica e cronaca della “Nuova Verona” con le puntate del romanzo di Salgari, un modo per far comprendere che quel romanzo di evasione nacque in una precisa società, dalla quale appunto si voleva evadere.
Parlare di evasione e di quotidiano, nella società odierna, è un'operazione complessa e scivolosa. Si può parlare di un limite etico per lambire l’evasione senza scivolarci del tutto dentro?
Si tratta di una questione centrale nel lavoro de I sacchi di sabbia. Evocare il “teatro popolare” è un’operazione semplicissima e molto complessa nello stesso tempo. Come restituire dignità alla fantasticheria e all’immaginazione? Ci vuole un grosso sforzo, in cui i bambini avrebbero tanto da insegnare. É una scommessa intrigante. Se parlo di quotidiano, prima di tutto penso a qualcosa di basso, affannato, che dovrei affrontare con le armi della denuncia. Ma non è questo il nostro intento, almeno per Sandokan. A guardar bene, dentro al romanzo di formazione di Salgari, troviamo una concezione molto manichea, il bianco è contrapposto al nero in modo netto. Eppure la statura del nemico, per esempio, viene messa chiaramente in luce. Si tratta di un’idea certamente schematica, eppure non conciliante, che mette in campo un’idea di comunità mescolando il bene e il male. Il nostro quotidiano, visto attraverso l’epica di Sandokan, tenta di non limitarsi alla pesantezza, alla denuncia del consumo. Dentro vogliamo trovarci un’aspirazione, una speranza. Dal quotidiano forse si può risalire all’utopia.
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