C’è un’immagine, una visione dello spettacolo da cui vorremmo partire: due persone abbagliate solo da un’idea di punizione, un teatro dove nessuna espiazione è possibile.
Senso di colpa è una di quelle parole di cui ci vogliamo sbarazzare. Niente azioni da giustificare, espiazioni, leggi da discutere, giustificazioni. Lo spettacolo è un tentativo di confronto con lo spreco totale e con la volontà, attraverso la semplicità. È la libertà di prenderselo, di farlo, di svilupparlo; la stessa libertà che ci lega a Romeo e Giulietta. Se non fosse questa l’impressione, lo spettacolo sarebbe allora un fallimento. Tutta la libertà che cerchiamo e che vogliamo è anche libertà nei confronti della scrittura e di fronte al repertorio: un tentativo di disperdersi, di sprecarsi, di farlo fino in fondo, fino al finale in cui tutto si dovrebbe placare in una sorta di banalità primordiale, nella prima barzelletta che si apprende da bambini. Lo spettacolo è solo atto, solo forza. L’idea è quella di non-messa in scena, di solo rapporto col gioco, una pratica che ha a che fare col teatro, non con la serietà della regia. È tutt’altro: il teatro che si raffronta con l’opera, con un’estetica, con delle necessità anche biografiche. È una messa in atto, instabile, di motivazioni che per noi al momento sono queste, un liberarsi da un certo tipo di rapporto. L’espiazione è la parte oscura, quando ce ne vogliamo liberare viene fuori.
Tu dici che c’è un “buttare fuori”, ma non c’è anche l’essere chiusi in una stanza?
La dispersione esiste, la vedo, la sento; ogni atto è fatto per quello, e anche il teatrino non è fatto tanto per fare la scena, quanto per arrotolare, cancellare tutto: l’unico obiettivo è quello di trasformare uno stato mentale non in immagine ma in dinamica, in fisici forti. Abbiamo a che fare con un rapporto ideale con l’adolescenza, il non pensare, il non progettare il futuro, lo stesso ideale che sta dietro a Romeo e Giulietta, al loro essere innamorati perdutamente, senza pensare a niente, essendo amanti fino in fondo, fino alla morte. Un’idea di antidomestico, di antiquotidiano, un ridicolo teatrino che non è contro la donna, ma contro l’idea di quotidiano dell’amore.
Vediamo i due performer, correre, contare, provarsi fisicamente. È un gioco al massacro in cui ci si ferisce. Si rischia per gioco di morire?
Chi se ne frega. Anche nei film di Tarantino ci si ammazza per niente. La morte appare come una scelta come un’altra, non certo un qualcosa di moralmente deprecabile. La forza in campo, tutta romantica, non è volta a conservare, ma, al contrario, a cancellare. Proprio come l’essere disadattato dell’hardcore, colui che in un determinato momento, quasi in un rito, riesce a liberare tutte le energie. In questa liberazione c’è tutta la volontà dello spettacolo di essere diretto: non generare esclusione, al contrario, riuscire a essere una sola cosa. Liberazione è il gioco, momento forse più ambiguo e difficile dello spettacolo. Ambiguo perché se si finge il gioco non funziona, difficile perché è necessario far diventare il teatro non la prima cosa che si vede, quanto piuttosto un “appendino”. La sensazione dovrebbe essere quella di un soffio come nel finale in cui tutto si scioglie intorno al tavolino e al racconto di una barzelletta: scatta qualcosa, il tentativo di trovare un gradino ulteriore attraverso cui disperdersi. Fregarsene delle regole, indossando un lenzuolo bianco da festicciola da sbronzi, prendendosi tutto il tempo per fare una sagoma dal legno, salendo in regia per richiedere un pezzo musicale, fermando di colpo il gioco per cantare una canzone di Celentano.
Alla fine, dunque, rimane solo il corpo?
È l’esplosione del corpo, attraverso lo sforzo fisico. Sono loro a volerlo. A volerlo addosso. È un abbandonarsi a degli stati fidandosi di quelli successivi; a farlo sono le stesse persone: sono gli stessi che prima si sfiniscono e poi ci ridono sopra. Stanno in scena in una sorta di confessione del voler essere liberi, del volersi sprecare e dell’essere lì nella banalità del volerlo fare. E la battuta finale ne è la chiara reiterazione: “sono morto anch’io”.