In redazione ci stiamo interrogando sulla questione del controllo e della sua perdita. Ma in À elle vide la perdita di controllo viene data come potenziale esplosivo che investe anche lo spettatore. Ci sembra però che questa deflagrazione energetica possa essere possibile solo attraversando una grande disciplina, intendendola come adesione perfetta al sé e alla propria idea.
Teodora Castellucci - Esattamente, c'è una perdita di controllo nel momento stesso in cui il controllo è più alto. Mi viene in mente una metafora pensando a Moby Dick: una barca sul mare che ha leggi e azioni necessarie che devono essere eseguite in modo rigoroso altrimenti non si può navigare e tutto rischia di finire in rovina. Da una parte c'è una grande osservazione della legge, e dall'altra c'è un totale abbandono, perché non sai che tempo farà il giorno dopo, anzi paradossalmente non sai niente, non sai se incontrerai una balena o una tempesta, quindi c'è un abbandono profondo, intimo, che prende ciascun membro dell'equipaggio a tal punto che non se ne può quasi parlare. Allo stesso tempo esiste un rigore assoluto perché ci sono cose che devono essere fatte per vivere.
Nell'incontro con l'inaspettato c'è quindi la necessità di questa coerenza interna fortissima, ma quali sono allora le regole, le “azioni necessarie” nel tuo spettacolo?
T.C. - La prima regola è il rigore: il gesto deve essere pulito, bisogna lavorare di sgrossatura e di precisione; questo vale anche e soprattutto nel rapporto con la musica: ogni gesto è inquadrato perfettamente all'interno dei vuoti e dei pieni che crea il battito musicale.
Demetrio Castellucci - Il rapporto con la musica è rigoroso ma non didascalico: un gesto non corrisponde semplicemente a un battito o è racchiuso da un ritmo. È come se il gesto fosse vestito di quel battito, che diventa un abito che vola nell'aria e muovendosi solleva le polvere e trascina con sé altre cose. La musica quindi non è inerente al gesto in modo netto, secco ma la relazione è più libera, anche se ritmicamente precisissima. Anche nella costruzione complessiva, il gesto non arriva prima della musica o viceversa, ma è come se emergessero contemporaneamente.
T.C.- Il gesto e i movimenti sono l'ultima cosa che arriva perché prima nasce la figura e quindi il suo disegno. Da qui si passa alla realizzazione del costume, della pelle di questa figura: si costruisce il materiale e con esso il suo “essere”. Solo dopo che è avvenuta la trasformazione nella figura si possono capire i perimetri dentro i quali si vuole rimanere. È dall'atteggiamento della figura che sgorga il gesto, che poi viene formalizzato. Il gesto, anche se è elemento sostanziale, in ordine cronologico è l'ultima cosa che nasce.
Parlando di rigore e di perdita di controllo non si può non sollevare la questione della libertà. Proprio in questa disciplina di cesellatura perfetta di una forma troviamo uno dei modi della libertà?
T.C. Credo che l'estremo rigore se portato e ripetuto fino a un certo limite possa divenire un modo d'essere. Si raggiunge un livello in cui non si pensa più, ma si è nell'azione. Lo fai perché sei così, lo hai acquisito talmente tanto da farlo divenire parte di te, così come mangi e tieni la forchetta in mano, che non è assolutamente un ricordarsi di come si deve impugnarla, ma è una maniera del sé. E se uno mi chiede: sei libero in questa condizione? Gli risponderei di sì, ne sono certa.