Ripensando all’irridente sfida agli equilibri di OTTO oppure all’atmosfera di immersione nella decadenza di pool, questa volta sulla scena anarchica formativa e performativa di Kinkaleri sembra essere arrivata un’ombra. Rimane quel brillare degli occhi dei cartoni animati giapponesi quando arriva un’idea, l’amore o addirittura la vendetta, con lo stesso potente linguaggio che costringe a stratificare pensieri. L’ombra di una relazione chiusa in una stanza senza possibilità di uscita? L’ombra sulla tenda in scena di una Giulietta che non c’è? L’ombra di un presente che è fatto solo da 2? Intuiamo la consapevolezza della vita che c’è fuori, ma lo specchio di quelle esistenze è immobilizzato in uno scontro ripetitivo e ossessivo, come dire è inutile muoversi se il mondo resta il nostro asfittico e immobile microcontesto. L’azione, la tanto desiderata azione, se rimane nella stanza chiusa rischia di diventare presto nevrosi, frustrazione auto consolante.
Quando i due attori in scena durante la corsa incessante ingaggiano la loro gara a chi si spoglia per primo, fino all’urlo liberatorio: “Nudo!”, niente sembra che sia stato liberato, tant’è che parte la vestizione in men che non si dica, perché di quei nudi nessuno sembra sapere cosa farsene.
La corsa continua persistente (con la minaccia crescente del crollo fisico), i due sono rivestiti di lenzuolo come due fantasmi e si cercano, senza trovarsi fino a che imbattendosi uno nell’altro si dicono: “mi prendi?” e da fantasmi ci regalano un attimo di sacro inesploso e delicato provandosi in due tentativi nella figura de la Pietà, ma subito dopo si perdono di nuovo. La corsa continua, si spogliano di nuovo, l’ombra di un adolescente va in regia e dice “mettimi la traccia 2” e parte l’hard core, fino a che nasce una Giulietta di compensato. Da quel momento intuiamo di nuovo molto chiaramente che le relazioni sono intrecciate e la complessità dei rapporti viene disarmata e dissacrata, ma sempre all’interno del gioco della coppia, e infatti rimane il dubbio se questo possa contenere le sfide alla realtà e all’oggi.
La barzelletta finale è stata imbruttita e resa vana ed è specchio coerente delle scelte dello spettacolo, il fantasma formaggino non fa più ridere e qui diventa addirittura la lettera del suicidio che prelude alla chiusura: “io sono morto”, “anche io”.
Un finale così disperante viene percepito immediatamente come la risposta in negativo al P. K. Dick di “io sono vivo voi siete morti” ed infatti sì, forse è vero che alcuni giorni sono migliori di altri, ma la decadenza si è ormai infiltrata nei tessuti di tutta la scena e pervade tutto. Rimane comunque una strada possibile, o meglio un desiderio, cercare il fantasma formaggino, farci raccontare com’era quando il terzo ospite del castello, “l’italiano”, se lo spalmava sul panino con una risata di sfida alla paura.