Partiamo dalla fine: le rovine, una delle immagine più letterarie dell’opera dei Motus che conclude il secondo movimento di X (ics) Racconti crudeli della giovinezza.
Alle rovine, una “categoria perenne dello spirito”, si lega il tema della memoria: una memoria cieca perché tra i resti bisogna muoversi a tentoni, cercando di ricostruire il paesaggio passato che rivive sotto il nostro contatto in una nuova forma, rovinata appunto. Non a caso lo spettacolo dei Motus si conclude con una testimonianza, il racconto di una anziana donna romagnola all’adolescente (“vuoi vedere se ho i capelli bianchi?”) che apre uno squarcio su generazioni passate, storie di guerra e prigionia, di immigrazione e sofferenza in un paese lontano.
Così mentre la donna racconta, la scena si riempie di scatoloni lanciati dalle quinte come sacchi di spazzatura, imballaggi di cartone vuoti, inciampi di un trasloco mai portato a termine, immagine del nostro presente (vedi monnezza a Napoli) e del nostro contingente festivaliero (vedi il rilascio lento di Stefano Bartezzaghi che paragona il festival a una stiva estiva dove accumulare cianfrusaglie).
Questa immagine finale della rovina, getta un’ombra su tutto lo spettacolo di Motus, su questo totale concerto-romanzo-film dell’adolescenza. Che cosa abbiamo visto finora? Un viaggio ai margini dello spazio spazzatura attraverso il filtro del malessere giovanile? Non solo: se è vero che le epoche del passato si giudicano dalle loro rovine, il lavoro dei Motus vale come documento sulle rovine del presente, con i suoi reperti e i suoi oggetti. Infatti lo sguardo in movimento della ragazza sui rollerblades è sfuggente, non è qui e non è adesso, ma è rivolto al futuro e per il futuro, mentre i luoghi che attraversa, questo sfondo da desktop (ci sono anche i pixel) sulla banlieue, sono già passati e conclusi, già rovine.
Allora la ricerca di se stessi, il “mi sto cercando” del volantino, è una ricerca cieca, priva della vista, coperta dal cappuccio del Parka Woolrich o dalla faccia dell’orso (un po’ teddy bear, un po’ grizzly) in uno spazio diffuso ed esploso nella notte dei fuochi d’artificio che si trasforma in bombardamento aereo.
Nessuno ti può aiutare perchè anche il linguaggio è “rovinato”, ha una grammatica in rovina, che è quella degli sms, e parole che nel crearsi, per colpa del t9, confondono: ad esempio quando il ragazzo scrive “strano” appare “pura”, per un attimo.
E finiamo con un’altra immagine letteraria, non meno potente, quasi ossessiva: la panchina del Malcom di James Purdy, zona di frontiera quotidiana intorno alla quale gravitano molti personaggi purdyiani, dai musicisti al cowboy, padri e fratelli adottivi di strada. La panchina non è solo un luogo, ma anche il simbolo dell’adolescenza stessa che dà senso e dal quale trae senso il dolore giovanile: l’attesa, il nulla, l’assenza. La panchina è l’immagine per eccellenza della nostra rovina. Allarghiamo: forse più che un’opera, un romanzo per immagini sull’adolescenza, Ics è un documento sull’epoca, la nostra.
Nicola Villa