Sarebbe tragico se la sterilità dovesse essere in qualche momento il risultato della libertà. La libertà si conquista perché si spera sempre nel parto di energie produttive. Ed Emerald City è energia: prima sotterranea e compressa, quindi deflagrante e aurale. Uno sforzo titanico: riflettere sull’uomo, la verità, la conoscenza. Attraverso il primato di vista e udito, i due sensi violentati della contemporaneità. Come uomini e donne dagli occhi accecati e dall’udito otturato varchiamo la soglia del mondo ricco e attraente di Emerald City, mondo in cui Fanny & Alexander provano a liberarci, raccontandoci, in fondo, la storia dell’uomo, la storia della sua tremenda ambiguità. Le mura di Emerald, come quelle di Gerico, rilasciano le inconfessabili parole degli uomini: parole che dicono, descrivono, informano, ma soprattutto emanano. Una babele sinfonica sincera ma tremendamente difficile da tradurre: popolo in cerca, aspettiamo che qualcuno ci aiuti a comprendere e ci liberi dall’attesa, imponga agli altoparlanti una stessa chiara e ipnotica frequenza. Perché noi uomini non vogliamo ascoltare voci diverse. Perché la nostra libertà non si accontenta più di se stessa, dispera della possibilità di scegliere da sé e cerca tutela e sicurezza nell’oggettività. Essa riconosce se stessa assai presto nei legami, si attua nella subordinazione, in una legge, in una regola, in una costruzione, un sistema: cessa di essere libertà. Il mago/Hitler ascolta e memorizza, così da poter interpretare e possedere la storia, manipolare la cultura di un popolo, canalizzare le speranze e la violenza. Proprio come fece entusiasta il popolo tedesco, accogliamo con ritrovato sollievo il tacere delle voci e, spinti dall’irrefrenabile desiderio di seguire, obbediamo senza tentennamenti al diktat del mago: “seguitemi, fate quel che dico!”. Una tremenda dimostrazione dell’attrazione che sull’uomo esercita la bellezza del potere, la banalità del male. Il mago si è alzato: effige santa, icona sospesa, specchio delle verità, ci mostra tutta la cialtroneria del potere. L’Hitler che osserviamo sospeso sulle nostre teste è lo stesso mostratoci da Sokurov ne Il Sole: come in quel caso siamo sorpresi dalla sua grottesca pochezza, eppure restiamo immobili, fermi, a bocca aperta, a dar credito a un teatrante, a un santino. Emerald City è uno squarcio sulla storia dell’uomo, è un abbagliante faro puntato sulla nostra contemporaneità, è un monito interrogativo: e il nostro cervello, il nostro cuore, il nostro coraggio dove sono andati a finire? Emerald City è un invito a una consapevolezza del passato per nulla passiva: per non essere complici sottomessi di un passato che è sempre con noi, che si nutre di noi e che non finisce mai. La congiunzione messa in atto tra luce e suono, tra luce e parola, mette in relazione quella di Fanny e Alexander con le narrazioni delle origini, degli eventi primordiali, dei miti e della conoscenza del mondo; la musica si fa potente intermediario tra orecchio e occhio, tra i punti mobili ed estremi di uno spazio che è sempre da esplorare e da interrogare. Uno spazio che sembra condurci alle soglie di un mistero.