Un Hitler in ginocchio è costretto ad ascoltare le confessioni e le richieste atone fattegli da voci distanti. È da qui che scaturisce anche la pietà verso questo totem, ridotto a feticcio da un mondo dove i dieci comandamenti sembrano essere stati sostituiti da oscure leggi dell’economia, per le quali lo spettacolo è il mezzo tramite il quale il mercato si serve per la conquista del mondo. L’Hitler che vediamo è infatti quello di Maurizio Cattelan, nuovo artista-manager attraverso cui si esprimono i desideri di successo (unico modo di poter affermare la propria esistenza) e l’ossessione della morte, vista come sola possibilità di liberazione. Il tutto dentro la consapevolezza di un mondo assurdo, perché di fronte al mercato tutto diventa uguale, l’unica legge è quella della capacità di destare attenzione e le vecchie idee di valore, morale ecc. fungono come richiamo melanconico anche quando vengono falsamente contestate: non si contesta qualcuno morto o che è lì lì per lasciarci. Nello spettacolo aleggia la malinconia verso un mondo che sembra scomparso, ma dal quale non ci si può distaccare, perché non ce n’è uno nuovo. A questo punto resta solo il gioco, nel doppio significato che il termine assume in inglese. Play: come giocare e recitare, in un’umanità dove l’onnipresenza e la perversione della sciarada sconfinano nella perdita del reale. La conseguenza di questo risultato è l’incapacità stessa dell’attore di sapere quale ruolo recitare, non sapendo a quale realtà e a quale pubblico ci si rivolge, affossandosi nell’astrazione. Il vecchio Potere, nella sua volontà ordinatrice, sembra essere sovrastato da un altro potere che lavorando attraverso differenti modalità caotiche produce nuove forme di oppressione, giocate soprattuto sulla capacità di gestire la molteplicità tramite la sua banalizzazione. È a questo punto che l’attesa messianica di un atto o di un gesto qualsiasi si esaudisce, non tramite la trascendenza ma attraverso l’imbroglio delle complessità tecnologiche. Sulla sala si avventa il buio. Hitler, sceso dal suo piedistallo, si “materializza” in 3-D in una porta-cornice. Hitler si anima e si rivolge direttamente a noi, anzi a te singolo spettatore, e cerca di mettere in scena una lezione sulla conoscenza dei sentimenti, tentando di definirli nella loro contraddittorietà. L’uomo/attore esce, ma solamente attraverso le modalità binarie dello spettacolo/pubblicità, cercando in maniera paradossale e forse idiota di proporre “umanità” dall’interno della semplificazione operata dai media sulla realtà. In ultima istanza si rivolge verso la bellezza/grazia nella forma dell’immagine, lottando così contro la definizione di Debord secondo cui “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”. Tra utopia, umanità, menzogna e idiozia verso la coscienza e verità nell’epoca della riproducibilità.
Jan Mozetic