I testi delle confessioni di Emerald City, fatte da attori, interpreti e “specialisti degli organi”, sono strutturati su tre livelli differenti di racconto: un evento biografico, un monologo letterario tratto dal Mago di Oz e un fatto di cronaca scelto individualmente. Tutti gli elementi son stati poi drammaturgicamente contaminati in un’intervista di carattere biografico che Chiara Lagani ha proposto a ogni espositore, che poteva rispondere con uno dei tre materiali consegnati. Strutturate così le richieste delle voci, rappresentanti dell’umanità, Marco Cavalcoli ha costruito il linguaggio del suo Oz, il mago ciarlatano. Quest’ultimo risponde al genere umano ideando una confessione composta in una lingua mimetica universale. Questa lingua non verbale è formalizzata attraverso il susseguirsi sul viso di Oz di cinque differenti maschere facciali (neutro, stupore, paura, gioia e tristezza) che sono il riflesso delle voci umane che avvolgono la scena. La confessione potrebbe essere intesa nell’accezione cristiana del termine e quindi legata all’espiazione di una colpa. In senso giuridico, invece, come un racconto-testimonianza necessario a smascherare il colpevole allorché gli occhi dei giudici-spettatori lo interrogano sulla verità dell’accusa che è stata intentata contro quella figurina di Hitler, imbalsamata nella sua forma cattelaniana. Sembrerebbe a un primo momento di poter ricollegare la prima accezione alla confessione mimico-facciale e la seconda alla babele di voci che escono dal corpo dell’accusato, come ossessive protuberanze dello stesso uomo, immobile davanti al rettangolo bianco della Storia dal quale è fuoriuscito. Le tante voci si trasformano subito in richieste, ma sono rivolte all’omino, o ai testimoni-spettatori? Forse il cervello serve per capire le storie, il fegato per avere il coraggio di ascoltare alcuni di questi terribili racconti, e il cuore per accogliere e mantenere vive e potenzialmente trasmissibili quelle suppliche sconsolate.
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