“Essere liberi, significa anche essere liberi dal bisogno di capire?”. Se lo chiedeva Maigret, di fronte a uno dei suoi intricati casi, così intrecciati al punto che anche il celebre commissario era alle prese con la “perdita di controllo” (sui fatti, sugli oggetti, sulla realtà). Forse Maigret era uno spettatore, forse d'eccezione, forse un po' più “partecipante” di come siamo ormai abituati a vedere, fra indistinte notti bianche e pseudoavanguardistiche rassegne. Ascoltiamolo, Maigret: ascoltiamo i suoi dubbi, rifacciamo il suo percorso. Dobbiamo capire, noi spettatori? O meglio sarebbe, invece, perdere il controllo? Qualcuno diceva: “Vedere uno spettacolo significa prima di tutto ricostruirlo nelle sue componenti tecnico – formali”. Dunque analizzarlo, sminuzzarlo, razionalizzarlo, studiarlo. In mezzo potrebbe stare una parola, lo “spaesamento”. Conoscere e approfondire, ma anche scegliere, dialogare, vedere tanto per formarsi un punto di vista proprio e anche “pratico”. Infine, potremmo abbandonarci, quasi dimenticando il nostro posto di spettatori seduti in platea, diventare “ebeti” di fronte all'opera. Uno spettatore che deve “dimettersi”, per rifondarsi sulla personalità estetica, sull'abbandono e mai più sul giudizio. Lo diceva Carmelo Bene a proposito della critica. Si tratta solo di tre gradienti, tre punti di un arco possibile che ne ammette di infiniti e personali. Forse avremmo bisogno, però, a teatro e nella società, di interrogarci in maniera feroce su queste ed altre zone di perdita di controllo, perchè non sia qualcun'altro che preveda e progetti per noi altre perdite e altri controlli.