Progetto, programma, metodo, realizzazione, ideazione sono tra le parole che individuano un campo semantico in cui si nominano alcune azioni appartenenti all’ambito del fare cognitivo e del fare pratico. Spesso si pensa che questi due tipi di azioni siano intimamente collegate in un rapporto così diretto e stretto, quasi da causa ed effetto, che ci si sente frustrati se un progetto non lo si programma per metterlo in opera, si pensa cioè che se si progetta qualcosa il suo inevitabile epilogo stia nella fattualizzazione di quel qualcosa. Ricordo al proposito una frase, una esortazione, di un premio Nobel come Rita Levi Montalcini che avvertiva: Ci sono cose che si possono fare, ma non si devono fare (stava parlando di manipolazione genetica ai suoi albori). C’è scarto inestinguibile tra idea e programma attuativo, non esiste continuità tra i due; la teoresi, la progettualità, in alcuni casi va a mescolarsi con scelte etiche. Ma non è qui che intendo portare il discorso, sto solo estremizzando gli esempi per mostrare come il rapporto sentito come causativo tra pensiero e sua attuazione sia invece problematico e asimmetrico.
Il campo che mi è più consueto riguarda l’utopia e dunque una tipologia inventiva particolare che affonda le sue radici ne La Repubblica di Platone, il progetto di stato per antonomasia. In antico il termine progetto non esisteva, il suo corrispettivo era approssimativamente idea perché progetto appartiene al tardo-latino prōjectāre, ovvero “gettare avanti”, “anticipare”, protendere qualcosa nel futuro, ideare qualcosa che non c’è in natura, dunque, o che non c’è ancora ma che potrebbe esserci. Si tratta dell’apporto dell’uomo a una ontologia che si modifica nel tempo e con le invenzioni e scoperte. Ecco perché, platonicamente parlando, ideare è specifico dell’essere umano, perché per Bloch l’utopia, ovvero il progetto, è una categoria noetica, perché è intriso di futuro, perché è impregnato di creatività. Ma questa azione cognitiva non implica una azione fattuale: l’Utopia di Th. More, il modello archetipico del progetto è la dimostrazione di ciò che può produrre la deontologia platonica, ovvero quel principio secondo il quale l’idea è la vera realtà, mentre ciò che viene considerato nella vita comune realtà non è, in effetti, se non una derivazione imperfetta della norma, della forma generatrice. Questa forma archetipa che è l’Utopia, proprio per la sua interna validità teorica, è rimasta singolarmente viva nella storia del pensiero, più viva di altri progetti analoghi successivi che hanno tentato di farsi programmi, di farsi cioè propositi attuativi e, in questo contrasto fra irrealismo intrinseco e tentativo di realizzarsi, hanno mostrato tutta la loro debolezza, spesso la loro arretratezza e insufficienza di fronte al vario evolversi delle situazioni storiche. La forza dell’Utopia non è solo nell’essere un ideale radicale e assoluto, ma nel suo porsi come paradigma puro e non come programma di azione (Isnardi Parente). Platone conclude la costruzione del suo progetto di Stato ideale dicendo: di questa nostra città l’esemplare sta forse nel cielo, e non è molto importante che esista di fatto in qualche luogo o che mai debba esistere; a quell’esemplare deve mirare chiunque voglia in primo luogo fondarla entro di sé.
Caterina Marrone
docente alla Sapienza di Roma, filosofa del linguaggio