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Può un festival essere il luogo di uno spreco ossia il luogo della volontà estrema di salvaguardare un tempo estraneo all’economia corrente dello Spettacolo?

 

Da una conversazione tra Lorenzo Bazzocchi e Raimondo Guarino



Un festival può essere nello stesso tempo un luogo di discussione e un luogo di azione.

E’ facile dire che le azioni sono gli spettacoli del festival, … ma … non basta.

E’ invece complessivamente un universo di relazioni che creano un campo di forze.

Che vuol dire un campo di forze?

Vuol dire che in questo luogo un punto di vista cerca un linguaggio.

E il punto di vista di chi fa teatro oggi in condizioni subalterne, precarie, marginali ma audacemente propositive cerca un linguaggio al limite tra l’esperienza e la scienza.

E’ interessante osservare cioè come venga perseguito in termini estremi un versante di speculazione filosofica, linguistica, epistemologica, (potremmo aggiungere tanti aggettivi quante le diversità specifiche degli approcci) e che in maniera visibile, questi approcci estremi vengano immediatamente associati con il teatro, alle strategie del discorso del teatrante sul suo operare nel mondo.

Si assiste a un impatto violento, quasi fisico, ad uno scontro di linguaggi, ad uno scontro di prospettive tra l’artista e il modo in cui il sapere, i punti di vista esterni alla sua identità, organizzano, mettono in prospettiva, deformano il suo modo di percepire.

Assistiamo in questi giorni a interventi estremamente incisivi e soprattutto devo dire estremamente sentiti, su un tema che che è un nodo del percepire, dare senso al mondo, dare significato al proprio comportamento, muoversi, orientarsi nel reale, contrapporsi al reale.

Si discute … di che cosa, ?

Che cos’è l’azione del teatrante di fronte allo sguardo del mondo?

Che cos’è lo sguardo del teatro sul mondo?

Che cos’è irriducibile nella visione, nella volontà di chi fa teatro.

Ora attraverso l’opposizione di punti di vista, di principi, di linguaggi, è sul binomio pensiero-occhio che sembra concentrarsi chiaramente la domanda su quali siano i limiti del potere di chi fa teatro.

E’ un concetto che può suonare grottesco nel mondo contemporaneo, i residui di questo potere simbolico, gli interrogativi su dove scaturisce e su dove finisce la portata di questo gesto insensato, alieno, estraneo che si offre allo sguardo del mondo.

Eppure è evidente che l’intensità della domanda, che la contrapposizione delle risposte, riguarda esattamente la coscienza e la attiva consapevolezza di questo.

Fin dove è visibile il suo gesto, dove si riflette, come parla, come tace, come assume punti di vista, prospettive, linguaggi estranei, come rifiuta di adeguarsi a questi linguaggi.

Questo, in effetti, è il luogo di uno spreco, il luogo della volontà estrema di salvaguardare un tempo estraneo all’economia corrente dello spettacolo.

E’ questo il luogo in cui si concentra un’enorme quantità di energia mentale, il luogo dove ci si può concedere il lusso di sprofondare nella molteplicità delle scritture, nella molteplicità delle immagini, nella infinità degli specchi che rimandano, a chi fa teatro, un’immagine problematica di sé stessi.

Vedere deformata, distorta la propria immagine e capire come esprimere il proprio punto di vista.

La questione drammatica, deflagrante oggi, è che il teatro è segnato, ridotto, compresso, quasi annientato da prospettive esterne, nella sua preliminare debolezza, fragilità, precarietà.

Qui noi assistiamo ad un esempio unico del metabolismo tra il proprio sguardo e uno sguardo esterno, tra la propria voce e la pressione di parole altre, che significa la sopravvivenza, poi, del teatro, non in termini estetici, non in termini puramente di linguaggio ma il sopravvivere di chi fa teatro, consapevolmente in questo mondo; qui non c’è teoria, c’è pratica del ragionare, c’è pratica del discorso, c’è pratica della coscienza e tutto questo crea un equilibrio specifico, non so se unico, certamente raro tra le occasioni, i tempi, le modalità consuete dell’offerta e della domanda dello spettacolo. Qui si percepisce un volume, uno spessore ulteriore.

Pensiero-occhio è questo.

Come quando si parlava di atto di creazione, di spazio-tempo, o di Bartleby-Tetsuo, non è solo una questione tecnica, non è solo una questione compositiva, non è solo una questione estetica, … è un taglio nel caos, una linea retta lanciata nella stocastica, una sorta di sondaggio, un tentativo spinto, deciso, … sì .. un sondaggio nel mare in cui fluttuano le isole galleggianti dei gruppi che qui si incontrano per capire come convivono le loro prospettive, spesso per capire se ancora ciò che fanno rientra nella stessa categoria culturale che è il teatro.

Mai come in questi giorni, nelle discussioni che seguiamo, si ha l’impressione dell’eterogeneità e nello stesso tempo, della necessità di rappresentarla, qui, addirittura, con una motivazione ulteriore.

Sopravvivere per il teatro significa proteggere questa eterogeneità, questa sovrapposizione di linguaggi diversi, queste solitudini.

E’ questo che noi vediamo qui, in maniera estremamente leggibile, un concerto di solitudini, che come tali si incontrano, si riconoscono e affilano armi dialettiche fra di loro, per prepararsi a un terreno di scontri, più ampio:

è questo che accade in certi luoghi …interrogarsi sui limiti del potere di chi fa teatro

porsi questa domanda grottesca, rispondere con parole che ricorreranno in questi giorni, come fede, scetticismo, splendore,

fare un inventario di questi concetti, sottratti ai diversi saperi,

e su uno scenario più ampio, bilanciare il confronto tra l’esperienza e la scienza.

Penso che oggi siamo consapevoli che non esiste, come in qualche caso si è creduto nel ‘900, … non esiste una scienza del teatro, come d’altra parte siamo consapevoli che qui il teatro è un punto di vista sui saperi, anche quelli più astratti, anche quelli che si ritengono più potenti.

Non la scienza del teatro ma il teatro e le scienze.

Questo attraverso l’esperienza, l’esperienza in atto e il discorso sull’esperienza.

…Discorso sull’esperienza … che è poi la difesa di un segreto.

Anche il segreto è uno spazio vitale, è una tecnica di difesa e convive qui come una ipotesi complessiva di respiro, spazio vitale di tecniche di sopravvivenza dei teatri d’oggi.


* Regista, fondatore della compagnia Masque Teatro

 

         

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